Da Famiglia Cristiana
Migranti, il racconto straziante delle
donne che hanno subito violenza
Le drammatiche testimonianze delle
richiedenti asilo costrette a subire abusi nei campi di detenzione libici. Come
molte delle rifugiate a bordo della "Diciotti".
29/08/2018
di
Katia Fitermann
Abbassa
lo sguardo per nascondermi le lacrime, Mariam (il nome è di fantasia per
proteggere la sua identità) quando le chiedo la sua impressione sulla vicenda
dei profughi salvati dalla nave Diociotti, della Guardia Costiera Italiana, da
pochi giorni sbarcati a Catania dopo un calvario durato 11 giorni.
La
giovane scuote la testa come se cercasse le parole, quelle che spesso muoiono
in gola a chi conosce il dolore nelle sue più terribili espressioni e non
sa come si possa difendere “a parole” la
dignità della vita umana. Sa che in
quella nave c’ erano, tra i 177 profughi, 28 minori e 12 ragazze, tutti sfuggiti all’ inferno dei
campi di concentramento libici. Lei, nei suoi 20 anni da poco compiuti, sa
tutto e proprio per questo non riesce ad esprimersi. L’ orrore e la tristezza
li dovrò cogliere nei suoi occhi lucidi, profondi, quanto la sofferenza di
queste persone.
“Non
hai idea di quanto ho sofferto in Libia!”, racconta con la voce spezzata. Loro,
loro che decidono su di noi non sanno niente davvero su cosa accade lì, ancora
di più alle ragazze e ai bambini.”
Non
si può mai capire la sofferenza delle persone senza averla vissuta sulla propria pelle.
“Sono
arrivata in Libia che avevo soltanto 12 anni. In Etiopia ero una bambina brava,
aiutavo mia madre nelle facendo domestiche e mi prendevo cura anche dei miei
fratellini. Ero la figlia maggiore dei miei genitori e quando la situazione in
Etiopia diventò davvero insopportabile, mio padre e mia madre hanno accettato
la proposta di farmi portare via da una persona conosciuta in un altro luogo,
per lavorare a casa di una famiglia come domestica. In cambio avrebbero aiutato
me e i miei. Ma in casa di quelle
persone non sono mai arrivata. Sono
stata rapita e portata in Libia e venduta come schiava. E così, per otto terribili anni, ho conosciuto tutto il male
di questo mondo. Ho conosciuto l’ inferno”, racconta.
La
ragazza mi racconta cose inimmaginabili, come la storia del bimbo nato in
prigione, mentre i miliziani libici stavano uccidendo sua madre perché si
lamentava delle doglie del parto. Quel piccolo che stava venendo al mondo nel
momento stesso in cui la ragazza stava per morire sotto i colpi dei loro
carnefici e l’ ordine privo di qualsiasi umanità, imposto alle altre recluse,
di “sbarazzarsi dei corpi di entrambi” anche se il piccolo era già quasi nato e
infine “di pulire il sangue sul pavimento”.
“Segnavo
la lista dei nomi dei morti, tra uomini, donne, bambini. Era così che passavo
il tempo dentro la prigione. Siccome spesso non riuscivo nemmeno a sapere il
loro nome, allora nella mia mente li davo un nome io. La lista dei morti non
finiva mai…”
Le
violenze sulle donne, nei campi di concentramento libici, sono difficili di
raccontare, come mi spiega un’ altra giovane, che chiamerò Kibra, proveniente
dall’ Eritrea, mentre raccolgo la sua storia:
“Avevo
una gamba rotta, avevo la febbre a causa della frattura e delle ferite, ma mi
violentavano lo stesso. Anche nelle condizioni precarie in cui mi trovavo,
ferita e sporca, dopo mesi senza potermi lavare. Ci stupravano davanti ai
nostri figli piccoli e loro non potevano neanche piangere l’ orrore di cui
erano vittime. Ci terrorrizzavano sempre e ci dicevano che se non riuscissimo a
far smettere di piangere i bambini loro li
avrebbero ammazzati.”
In
tutti i racconti delle profughe, in particolare quelle che sono passate dalla
Libia, la violenza sessuale su donne e bambini è la solita costante. Mai un
briciolo di pietà. Mai un ricordo di umana compassione.
“I
carcerieri ci picchiavano con una tale brutalità, a volte fino a quando non avevano più la forza di
farlo. Dentro la prigione non potevamo parlare, a volte neanche muovere le
labbra senza pronunciare parole. Di giorno ci picchiavano e di notte venivano a
violentarci. Non eravamo più persone. Non eravamo niente ai loro occhi. Ci
davano scariche elettriche dopo averci violentato, ci bruciavano lasciandoci
scottture tremende, bruciavano anche i bambini”
I
vissuti traumatici di queste ragazze, la maggior parte giovanissime, scapate
alla guerra in Sudan, Somalia, Eritrea, Etiopia, sono difficili da tradurre in
parole. Come è davvero difficile difendere la dignità di una persona con le
parole, come mi ricordava appunto Mariam.
Gli
orrori della Libia si moltiplicano in maniera esponenziale quando la vittima è
una ragazza oppure un bambino.
Mi
racconta Enana Damlash, una rifugiata
etiope in Italia, che la sera prima che la imbarcassero su un gommone nalandato
a Tripoli, (era stata incarcerata in Libia con la figlia neonata per tre lunghi
anni), i libici erano entrati nel magazzino dove i prigionieri erano stati
stipati come animali e avevano deciso di
portare via con loro una bambina di sei anni, strappandola alla madre che
implorava pietà supplicando loro che non gliela portassero via. Per tutta la notte
la piccola era stata violentata dai carcerieri e quando è stata restituita alla
madre era ormai irriconoscibile: “Aveva
gli occhi bianchi, senza colore, era priva di coscienza, piena di lividi,
ferita e sanguinante”. Racconta allora la giovane che lei e le altre prigioniere avevano ripulito il corpo della
piccola con i propri vestiti e, strappandosi un pezzo di stoffa ciascuna, l’
avevano rivestita. “La bambina sembrava morta, ma respirava piano. Sua madre
era ormai completamente impazzita e dalla disperazione si graffiava il proprio
volto e il corpo, piangeva e si strappava i
capelli. Provavamo tanta pietà per lei, che era riuscita quasi fino alla
fine di quell’ inferno a proteggere la bimba dalle violenze sessuali in Libia,
subendole lei al suo posto. Durante il viaggio
la madre della piccola si è lasciata cadere in mare ed è scomparsa tra
le onde. La bambina l’ avevamo adagiata sul gommone. Abbiamo custodito noi il
suo corpo esanime per tutto il viaggio e quando siamo stati salvati in mare da
una nave italiana, dopo tre giorni alla deriva, ci hanno portato a Lampedusa e lei è stata soccorsa
per prima. Ci hanno soltanto detto che era ancora viva e ho pianto di gioia.
Non so dove hanno portata la bimba, ma sono sicura che qualcuno si sarà preso
cura di lei. “
Sentir
dire in questi giorni che i profughi
dovrebbero essere riportati in Libia, che queste persone non devono toccare il
suolo italiano rievocano in me le parole
Hannah Arendt su Eichmann:
“Era
come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo
lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della
spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”.