Samar Batrawi è ricercatrice presso l’Università King’s College di Londra. Di recente, ha scritto degli articoli che trattavano, in particolare, i movimenti e gruppi violenti che operano, in Siria e in Irak.
Interessata alle sue ricerche sullo Stato Islamico, l’Ambasciata di Israele, a Londra, l’ha invitata, questa settimana, per una “discussione”. Ecco la sua risposta.
Desidero
dire, senza equivoci e nel modo più chiaro, che io rifiuto ogni
associazione o collaborazione con l’Ambasciata di Israele, a
Londra, per due distinte ragioni.
Innanzitutto,
io sono la nipote di Mahmoud e Fatima Batrawi, due Palestinesi di
Isdrud, che sono stati deportati, forzatamente, quando lo Stato che
voi rappresentate è stato creato. Entrambi sono sepolti, in un
cimitero della Cisgiordania, sormontato dalla colonia illegale di
Psagot, legittimata dal governo dello Stato che voi rappresentate. La
mia famiglia è una delle molte famiglie palestinesi che sono sopravvissute e cresciute contro ogni previsione, contribuendo alle
società in cui vivono. Sono medici, insegnanti, avvocati,
giornalisti, scrittori e accademici. E’ sulle spalle di questi
eccezionali esseri umani che io, Palestinese che ha vissuto sotto la
brutale rioccupazione di parti della Cisgiordania, durante la Seconda
Intifada, sto. Voi siete, come ha detto, chiaramente, uno dei vostri
cittadini più coscienziosi, “i loro occupanti, i loro torturatori,
i loro carcerieri, i ladri della loro terra e della loro acqua,
quelli che li esiliano, i demolitori delle loro case, quelli che
bloccano i loro orizzonti.”.E’ sotto l’occupazione dello Stato
di Israele che mio padre deve vivere, ogni giorno; è il suo assedio
di Gaza che la mia famiglia ha sopportato, troppo a lungo; è il suo
Governo criminale che ha diviso la mia famiglia in due, per più di
dieci anni. E’ il “diritto all’autodifesa di Israele” che
disturba il mio sonno, ogni notte, quando mi chiedo se mi sveglierò
con la notizia che un dei miei cari è stato ucciso come “danno
collaterale”, in una delle vostre operazioni, astutamente
orchestrate. E’ l’odore del gas lacrimogeno, sparato dalle “forze
di difesa” che sento, nei miei incubi, un ricordo infantile
condiviso da molte generazioni di Palestinesi.
In
secondo luogo, l’articolo che ho scritto sull’apparente
appropriazione della questione palestinese da parte dello Stato
Islamico non implicava un interesse condiviso tra Israeliani e
Palestinesi, come tutti quelli che lo hanno letto, in modo critico,
avranno capito. Voi rappresentate l’occupante e io rappresento
l’occupato. Non è una posizione politica ma, piuttosto, la realtà
della mia vita, quella che lo Stato di Israele mi ha imposta. Nessun
supposto interesse comune può prevalere su questo fatto
fondamentale. I soli temi da discutere sono i Diritti Umani di base
dei Palestinesi che vivono sotto occupazione e in esilio. E lo Stato
che voi rappresentate ha ben chiarito di essere disinteressato a
questa questione.
Due
brevi commenti finali.
Che
cosa rappresenta per voi il 3 novembre? In questo giorno di 59 anni
fa, le forze israeliane hanno massacrato centinaia di Palestinesi, a
Khan Younis. Mia nonna era una giovane mamma, all’epoca, mio padre
aveva pochi mesi. Lei lo teneva in grembo, nascosto sotto il vestito,
con la paura che le forze israeliane lo potessero trovare e
portarglielo via. Sono morte tra le 275 e 415 persone, quel giorno,
ma la mia famiglia è sopravvissuta per raccontare la storia. Questo
rappresenta per me il 3 novembre.
Infine,
come cittadina palestinese, titolare di una carta di identità della
Cisgiordania, non posso mettere piede, in Israele, a meno che non
ottenga un permesso. Per questo, non posso essere utile ma trovo
divertente il fatto che l’Ambasciata di Israele vorrebbe
organizzare un incontro con me perché, anche se accettassi questa
offerta, avrei paura di essere picchiata e imprigionata dalle vostre
guardie per infiltrazione.
Trovo
vergognoso che vi rivolgiate a me, in queste circostanze. E’
probabile che io debba osservare gli ordini del vostro Stato, ancora
per molti anni, ma questa è una di quelle rare, bellissime
occasioni, in cui posso dire al mio occupante, al mio torturatore, al
mio carceriere, al ladro della mia terra, a quello che mi esilia, al
demolitore della mia casa, a quello che blocca il mio orizzonte.
No.
Cordialmente,
Samar
Batrawi
PhD
Candidate and GraduateTeaching Assistant
Department
of War Studies
King’s
College London
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