28/05/23

Torino, dopo sei processi arriva la condanna per violenza sessuale. Era stato assolto perché la vittima «non urla e non piange»

Dalla stampa:
Per l’ex coordinatore della Croce Rossa Massimo Raccuia 3 anni e 8 mesi di carcere. 
«Non urla, non chiede aiuto». Sei anni fa, nel 2017, queste parole scritte su una sentenza sembravano mettere fine alle speranze di una precaria della Croce Rossa, che con fatica aveva denunciato di essere stata violentata da un superiore. Il Tribunale di Torino l’aveva giudicata «non credibile» e l’imputato era stato assolto. Sei anni più tardi e sei processi dopo, le parole e le valutazioni dei giudici sono radicalmente cambiate. L’ultimo verdetto è stato pronunciato dalla Corte d’appello di Torino che ha condannato Massimo Raccuia, all’epoca dei fatti coordinatore locale della Cri, a 3 anni e 8 mesi di carcere per violenza sessuale.
Per ripercorrere l’intera storia bisogna partire dal 2010 e fare un salto nel tempo di 13 anni, quando la donna inizia a lavorare per la Cri con un contratto interinale. Entra così in contatto con Raccuia, commissario locale e indirettamente suo superiore. Anni più tardi lei racconterà di essere stata vittima di violenza: denuncia cinque episodi che hanno come teatro le salette dei volontari del 118 negli ospedali Mauriziano, Gradenigo e San Giovanni Bosco. In primo grado l’uomo viene assolto.
La sentenza dice che la vittima, difesa dall’avvocato Virginia Iorio, non è attendibile. «Non grida, non urla, non piange», scrive il collegio. I giudici d’appello ribaltano, ma solo dal punto di vista morale, il verdetto: scrivono che la donna è sincera, ma assolvono l’imputato perché la querela era intempestiva. La Procura generale presenta ricorso in Cassazione e sostiene che tra la vittima e il commissario c’era un rapporto gerarchico: in sostanza, la querela non serve e il reato è procedibile d’ufficio. Lettura accolta dai supremi giudici che ordinano un secondo processo d’appello, al termine del quale Raccuia viene condannato a 4 anni e 6 mesi di reclusione. I togati evidenziano che non vi è «ombra d’incertezza» sulle violenze. L’uomo avrebbe approfittato non solo del fatto che lei temeva di «perdere quel pur modesto lavoro che le garantiva un minimo di redditività», ma anche delle difficoltà della donna a denunciare». 
La sentenza, però, non supera lo scoglio della Cassazione alla quale si rivolgono gli avvocati difensori dell’imputato, Tom Servetto e Cosimo Maggiore. I supremi giudici dispongono così un terzo processo d’appello, invitando il collegio a scandagliare in modo più articolato il rapporto gerarchico. Nell’ultima udienza la pronuncia, con la condanna a 3 anni e 8 mesi.

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