(di Stefano Porcari) - La strada del futuro del lavoro – o almeno di una parte di esso – con il ricorso al lavoro da remoto o smart working, ha aumentato la produttività e sarà utilizzato dalle aziende anche dopo la pandemia. Di contro – e inevitabilmente – il ricorso massiccio al lavoro da remoto genera timori tra i lavoratrici e lavoratori, preoccupati di dover essere sempre attivi e del venir meno della separazione tra tempo di lavoro e tempo libero dal lavoro. Dunque c’è l’evidente pericolo di un allungamento fattuale della giornata lavorativa.
A riferire lo stato dell’arte e le sue prospettive è un rapporto del Capgemini Research Institute dedicato a “The future of work: from remote to hybrid”.
Il 63% delle aziende afferma che la produttività dei dipendenti ha subito un incremento nel terzo trimestre del 2020. Il merito sarebbe legato alla riduzione dei tempi necessari per raggiungere il luogo di lavoro, alla flessibilità degli orari e all’adozione di strumenti di collaborazione virtuale.
Le aziende stimano un aumento complessivo della produttività del 17% nei prossimi due o tre anni. Il ricorso al lavoro da remoto ha anche ridotto i costi: negli ultimi mesi, l’88% degli imprenditori intervistati ha risparmiato sui costi degli immobili e delle utenze, il 92% prevede di realizzare un ulteriore risparmio nei prossimi due o tre anni.
Il 70% delle imprese ritiene che l’aumento della produttività legato allo smart working sia sostenibile anche una volta terminata la pandemia. Per questo motivo nei prossimi tre anni quasi tre aziende su dieci si aspettano che più del 70% dei propri dipendenti lavorino da remoto. Prima della pandemia di Covid-19 solo un’azienda su dieci affermava di voler puntare così tanto sul lavoro da remoto.
L’aumento della produttività ovviamente si rileva nei settori dove il lavoro da remoto è applicabile. In particolare le attività IT e digitali, seguite dal servizio clienti (60%) e da vendite e marketing (59%). Comparti come il manifatturiero, nei quali la presenza fisica è spesso essenziale, si fermano invece sotto il 50%.
Non altrettanto lusinghiero però è il punto di vista di lavoratrici e lavoratori, preoccupati della possibilità di svolgere l’attività lavorativa da remoto sul lungo periodo. Circa il 56% (il 60% tra i 26 e i 35 anni) teme infatti che venga loro richiesto di essere “always on”, cioè sempre disponibili, anche al di là dell’orario di lavoro fin qui stabilito.
Queste preoccupazioni, secondo il rapporto del Capgemini Research Inistitute, fanno sorgere dubbi sulla possibilità di mantenere un aumento della produttività sul lungo periodo attraverso un modello di lavoro ibrido di successo.
Il rapporto indica quindi la necessità di creare un nuovo modello ibrido, con un mix di lavoro da casa e presenza in ufficio. Non si tratta però solo di spostare un pc: con la nuova organizzazione, è necessario “riconsiderare il modello di selezione” (meno legato alla presenza fisica), “ridefinire la leadership e promuovere autonomia, empatia e trasparenza”, “rinnovare una cultura del lavoro basata sulla fiducia attraverso nuove abitudini collettive” e “installare una solida infrastruttura per accelerare la modalità di lavoro in digitale”.
A fronte a questo sostanzioso cambiamento nell’organizzazione e la struttura del lavoro, sindacati come Usb hanno messo nero su bianco le proprie valutazioni. Recentemente a questo è stato dedicato un apposito seminario.
In particolare secondo Usb sul lavoro da remoto ci sono questioni non negoziabili come la volontarietà dell’accesso al lavoro agile soddisfacendo le richieste di chi vuol usufruire di tale modalità lavorativa ed al contempo garantendo a chi vuol rientrare in presenza di farlo in sicurezza adoperando gli altri strumenti di flessibilità previsti.
Ma una volta finita o posta sotto controllo la pandemia, su quali nodi è necessario mettere dei punti fermi? Ad esempio c’è la questione dei costi e delle dotazioni: la strumentazione e i costi fissi devono essere a carico del datore di lavoro e non sopportati dal lavoratore.
Il riferimento non va soltanto ai pc ed alle utenze ma anche a quelli volti a garantire il diritto alla salute ed alla sicurezza in un ambiente, quello di casa, che va messo in sicurezza (per esempio sedie, schermi e scrivania). Ma soprattutto c’è la regolamentazione dell’orario di lavoro.
Lo smart working non può determinare un mutamento della natura della prestazione lavorativa spingendo sull’acceleratore del lavoro per obbiettivi.
La prestazione lavorativa deve essere agganciata e commisurata all’orario di lavoro anche se questo assumerà articolazioni differenti rispetto al lavoro in presenza. Quindi non si tratta solo di garantire il sacrosanto diritto alla disconnessione ma di garantire che il lavoro da remoto non determini un surrettizio aumento dell’orario di lavoro.
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