02/07/25

La festa dei ricchi, la fame dei popoli. Riflessione sulla trilogia Hunger Games di Suzanne Collins


C’è una saga letteraria e cinematografica che, a dispetto della sua confezione commerciale, racconta una storia dura e attuale. Hunger Games, scritta da Suzanne Collins tra il 2008 e il 2010, narra di un mondo diviso tra una Capitale ricca e crudele chiamata Capitol City, e una serie di Distretti impoveriti, oppressi e sfruttati. Ogni anno, due ragazzɜ da ogni Distretto vengono sorteggiatɜ per combattere a morte in un’arena televisiva, uno spettacolo di violenza che serve a mantenere il controllo e a distrarre chi subisce. La protagonista, Katniss Everdeen, si offre volontaria per salvare la sorella, dando vita a una storia di sopravvivenza, sacrificio e ribellione.
Ma Hunger Games non è solo finzione. Capitol City esiste. È la rappresentazione estrema dell’élite globale che vive nell’opulenza mentre miliardi lottano per la sopravvivenza. È New York, Londra, Tel Aviv. È Bruxelles che arma i confini e controlla i mari. È Washington che finanzia il genocidio a Gaza. È Roma che firma decreti razzisti e respinge migranti. Il mondo reale si divide tra pochi ricchi e potenti che festeggiano, si abbuffano e vomitano per continuare a mangiare, e milioni di persone che muoiono di fame, di guerra, di sfruttamento.
Capitol City non è solo il luogo della ricchezza sfrenata e dello sfruttamento. È anche il teatro di un grande spettacolo, dove il dolore, la sofferenza e la morte sono messi in scena per anestetizzare le coscienze e normalizzare l’orrore. Nel racconto di Suzanne Collins, ogni anno i Distretti assistono a quella che dovrebbe essere una tragedia reale ma diventa uno show televisivo, una sorta di reality crudele, in cui la morte è spettacolarizzata, e chi soffre diventa un mero intrattenimento.
Nel nostro mondo reale, questo meccanismo si riproduce con impressionante fedeltà. Le immagini di bambini morti, di quartieri rasi al suolo, di donne e uomini in fuga sono sfilate ogni giorno sui nostri schermi, ma il loro significato si dissolve in un flusso infinito di notizie, immagini, tweet, video che saturano e confondono. La ripetizione continua produce assuefazione, una sorta di anestesia collettiva che ci impedisce di indignarci davvero, di agire, di sentire l’urgenza di cambiare.
Parallelamente, la verità stessa diventa terreno di guerra. Con leader come Donald Trump, capace di dichiarare “fake news” qualsiasi cosa non si allinei ai suoi interessi, e di rimodellare il concetto stesso di realtà, si crea un cortocircuito pericoloso: ciò che è vero o falso non dipende più dai fatti, ma dalla volontà di chi detiene il potere. La disinformazione e la manipolazione diventano armi per controllare le masse, per dividere e indebolire ogni forma di resistenza.
La devastazione non si limita alle strade, ai corpi o all’informazione. Si estende alle fondamenta stesse della società: la scuola. Smantellare l’educazione pubblica, ridurre spazi e risorse per la formazione critica, delegittimare il sapere sono armi potenti di questo sistema. Privare le nuove generazioni degli strumenti per interpretare e decostruire la realtà significa condurle verso uno stato di passività e ignoranza, una condizione che può essere efficacemente descritta con la metafora degli zombie.
Fin dai tempi di George Romero, lo zombie rappresenta l’essere che cammina senza coscienza, incapace di vedere, pensare o ribellarsi. Lo zombie perde la capacità di reagire e tipicamente torna nei luoghi abituali in maniera automatica, come i centri commerciali. È la perfetta incarnazione di una società anestetizzata dalla spettacolarizzazione del dolore e dalla manipolazione della verità, che perde la capacità di reagire e che, ormai distratta, contribuisce attivamente alla distruzione di chi ancora è umano.
Accanto al controllo della verità e dell’informazione, il dominio estetico è un’altra forma di potere che l’élite esercita con precisione chirurgica. Il legame tra bellezza e bontà affonda le radici nella storia dell’arte e della filosofia occidentale. Già Platone, nella Grecia classica, associava il bello al vero e al bene, concependo un ideale estetico che non era solo forma, ma valore morale. Nel Rinascimento, la bellezza diventò strumento di potere, usata per legittimare autorità e costruire gerarchie sociali.
Oggi questo retaggio si è trasformato in un dominio estetico mercificato e politicizzato: le élite impongono modelli di “bellezza” che servono a distinguere chi detiene il potere, a creare gerarchie visibili e a mantenere privilegi. In questo sistema, “bello” diventa sinonimo di “meritevole” e “giusto”, alimentando insicurezze e plasmando identità in funzione del controllo sociale.
Un esempio concreto di come l’estetica venga usata come strumento di potere è “The Beautiful Bill”, la legge proposta da Donald Trump nel 2021 che mirava a trasformare la percezione pubblica della “bellezza” in un affare di controllo sociale. Non è solo una questione di apparenza: è una strategia per legittimare politiche esclusive, per imporre modelli di comportamento e per definire chi merita cosa. In questo modo, “bello” diventa sinonimo di “meritevole”, mentre chi non rientra in questi standard viene marginalizzato e escluso.
Questo controllo estetico si traduce anche in una narrazione pubblica attentamente costruita, fatta di immagini, discorsi e simboli studiati per legittimare chi detiene il potere, anche quando esercita violenza e sopraffazione. L’élite occidentale, attraverso media e diplomazia, costruisce uno spettacolo di normalità e razionalità, in cui le proprie azioni vengono presentate come inevitabili, giuste e “belle” nel senso di ordinate e legittime, nascondendo così la brutalità sottostante.
È in questo contesto che il 7 ottobre 2023, quando è iniziata l’offensiva militare israeliana su Gaza, abbiamo assistito a una narrazione mediatica che ha scelto di mascherare l’orrore con formalismi diplomatici e retoriche di “autodifesa”. Giorgia Meloni ha dichiarato senza esitazione il suo “pieno sostegno a Israele”, Ursula von der Leyen ha rinsaldato l’alleanza con una visita a Tel Aviv, e Joe Biden ha continuato a fornire armi e a bloccare risoluzioni ONU per il cessate il fuoco.
Questa è l’estetica del potere che non solo si mostra negli abiti e negli eventi, ma si declina in narrazioni pubbliche che anestetizzano, legittimano e riproducono violenza e disuguaglianze. Chi tace o minimizza diventa parte integrante di questo meccanismo, che mantiene in piedi un regime di apartheid militare con il sostegno dell’Occidente.
La sproporzione tra la ricchezza sfrenata di miliardari come Jeff Bezos — capace di spendere 300 milioni di dollari per un matrimonio a Venezia, una cifra che supera di gran lunga qualsiasi reddito medio, come quello di una lavoratrice italiana che guadagna 1.500 euro al mese — non è solo un abisso economico. È la manifestazione plastica di un sistema che costruisce e mantiene gerarchie radicali di potere e privilegio, traducendo la disuguaglianza in controllo culturale e simbolico. Questi numeri raccontano una storia di chi può vomitare dopo una festa esagerata per continuare a mangiare, mentre milioni muoiono di fame, una verità atroce che il sistema spettacolarizza e nasconde.
In questo scenario si inserisce la narrazione di Hunger Games, dove Capitol City rappresenta la Capitale dell’opulenza e dello spreco, mentre i Distretti incarnano le popolazioni sfruttate e marginalizzate. Peeta, che crede nella possibilità di un cambiamento dentro il sistema, viene piegato, torturato, reso un simbolo vuoto e manipolato. Katniss, al contrario, rifiuta quella sottomissione; la sua ribellione nasce dalla consapevolezza dell’ingiustizia strutturale, da un’urgenza che si traduce in lotta reale per la dignità e la sopravvivenza.
Questo legame tra disparità materiale e resistenza simbolica è fondamentale per comprendere il nostro presente. Non si tratta solo di numeri o di racconti: è la rappresentazione concreta di un conflitto globale, in cui il lusso sfrenato e la fame coesistono come estremi dello stesso sistema di dominio. Comprendere questa relazione ci permette di non cadere nella trappola della spettacolarizzazione passiva, ma di alimentare una lotta consapevole, intersezionale, che sappia mettere in discussione le radici di quel potere.
Il Brasile oggi ha cambiato formalmente governo, ma le ferite profonde causate dalla devastazione ambientale e dalla violenza sistemica contro le comunità indigene e marginalizzate restano intatte. L’ecocidio, l’etnocidio culturale e il femminicidio sistemico sono processi strutturali che non si fermano con un semplice cambio di nome o facciata politica.
Se non spezziamo questo meccanismo, se non costruiamo alleanze forti e radicali, saremo solo pubblico a guardare lo show di chi ci domina.
L’arena è ovunque.

Vi lascio il primo film completo

Alice Castiglione

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