Continua ad emergere la moderna schiavitù di immigrati e non nelle campagne. Per le lavoratrici significa anche schiavitù sessuale
«Mi diceva sei una schiava». L’incubo di Erika, sfruttata nelle serre e costretta a quattro aborti .
Ragusa, il racconto di una bracciante rumena stuprata e sequestrata dal proprio datore di lavoro
All’alba manca uno spruzzo di notte. Dalla campagna ancora avvolta nel buio una folla silenziosa si riversa nei viottoli deformati dalle buche. Nelle serre di Vittoria, in provincia di Ragusa, si comincia a lavorare presto la mattina perché alle 12 l’aria brucia e la temperatura sfiora i 50 gradi. Poi qualcuno torna ai campi nel pomeriggio. E se c’è da fare si sgobba anche 10, 12 ore al giorno. Sono per il 70% stranieri, perché gli italiani costano di più. In tutto sono 13.240, 4.349 sono rumeni, e di questi 1.800 sono donne. Le hanno chiamate «schiave delle serre», perché oltre allo stipendio da fame, molto spesso subiscono ricatti, pressioni, spesso vero e proprie molestie da parte di datori di lavoro che sentendosi al sicuro, protetti dal silenzio dei campi e dalla condizione di totale subalternità delle proprie vittime, si spingono in qualche caso fino alla molestia, o addirittura allo stupro.
Anche la giornata di Erika (nome di fantasia) cominciava molto presto la mattina. E andava avanti per tutto il giorno, a sgobbare sui filari di pomodori, tra le melanzane e i meloni. Poi la sera, esausta, doveva subire l’arroganza del padrone: «Ero lì nella sua azienda da quattro mesi. Aspettò di essere solo, che la moglie fosse lontana, in paese. E così si approfittò di me».
Ha più di 45 anni, il volto è consumato dalla fatica, rigato dal sole. Eppure Erika conserva una sua dolcezza quasi adolescenziale. Per sei anni ha subito in silenzio. Ha dovuto abortire quattro volte, lei vedova e madre di sei figli rimasti in Romania, a cui mensilmente manda quasi tutto ciò che guadagna: «Da lui mai un aiuto, mai neppure una parola di incoraggiamento. Neanche un cane si tratta così». Per interrompere la gravidanza in tre casi è tornata in Romania, un viaggio di 60 ore in pullman. La quarta volta si è dovuta arrangiare da sola, con l’acqua calda, rischiando la vita. Una situazione che forse l’accomuna alle altre 94 donne rumene che nel 2014 hanno deciso di non portare a termine la gravidanza, un numero molto alto se si considera che gli aborti tra le straniere in totale sono stati 454. «Mi è dispiaciuto tanto – racconta – ma non potevo tenerli. Come facevo? Ho già altri bambini da mantenere».
Nelle campagne tra i comuni di Vittoria, Santa Croce Camerina e Acate non esiste trasporto pubblico. Per ogni spostamento, per le medicine, per l’assistenza legale, i braccianti stranieri dipendono dal proprio datore di lavoro. Quello che si crea è un vincolo di assoluta dipendenza. Psicologica ma anche e soprattutto fisica. «Pretendeva di controllare ogni mio spostamento. Mi tempestava di telefonate se non mi trovava nella mia stanza», spiega Erika.
Una notte, esausta, ha tentato la fuga: «Da allora non mi ha dato tregua, fino a quando mi ha ritrovata. Mi ha riportato indietro e mi ha mostrato la sbarra di ferro con cui, mi ha detto, mi avrebbe spaccato la faccia. La notte stessa sono scappata di nuovo, ma sono inciampata nel filo di ferro che aveva teso proprio all’uscita della mia baracca e mi sono ferita. Il giorno dopo, nella serra, mi ha visto dolorante. E senza pietà mi ha riso in faccia: che fai, non lavori oggi? Mi ha detto»
Solo i carabinieri della compagnia di Ragusa sono riusciti a salvare Erika dal suo padrone. Guidati dal tenente David Millul, e grazie alla costanza del maresciallo Valenzisi, il comandante della stazione che ha raccolto la prima informazione da una fonte confidenziale, hanno radunato le prove e finalmente fatto irruzione nell’azienda dell’uomo, ora detenuto con l’accusa di violenza sessuale e sequestro di persona. La vicenda di Erika, per quanto estrema, non è probabilmente l’unica. I racconti di violenze e abusi subiti nelle serre si rincorrono. Ma sono voci. Le denunce restano pochissime. Ci sono state le inchieste sociologiche, i reportage dell’«Espresso» e del Corriere della Sera hanno acceso i riflettori su questa realtà.
«La comunità rumena è estremamente riservata», spiega Giuseppe Scifo, segretario della Flai Cgil, e punto di riferimento «sindacale» per centinaia di braccianti a Vittoria e dintorni. «Si tratta di una presenza creatasi negli ultimi anni – aggiunge il sindacalista – Nei registri Inps del comune di Vittoria, nel 2006 erano annoverate 30-40 lavoratori rumeni. Nel 2007 erano già 1200. Oggi, in tutta la provincia, se ne contano 4.300». Chiusi, diffidenti nei confronti dell’istituzione, difficilmente si aprono e raccontano i propri problemi. Per avvicinarli la Cgil in collaborazione con una associazione che lavora proprio nel campo dell’assistenza alle lavoratrici, ha attrezzato un pulmino che attraversa i campi e accompagna le donne avanti indietro. E tra una buca e l’altra, lungo le stradine polverose che irradiano questa immensa distesa di serre, sono riusciti a prendere i primi, difficoltosi contatti con le vittime.
All’alba manca uno spruzzo di notte. Dalla campagna ancora avvolta nel buio una folla silenziosa si riversa nei viottoli deformati dalle buche. Nelle serre di Vittoria, in provincia di Ragusa, si comincia a lavorare presto la mattina perché alle 12 l’aria brucia e la temperatura sfiora i 50 gradi. Poi qualcuno torna ai campi nel pomeriggio. E se c’è da fare si sgobba anche 10, 12 ore al giorno. Sono per il 70% stranieri, perché gli italiani costano di più. In tutto sono 13.240, 4.349 sono rumeni, e di questi 1.800 sono donne. Le hanno chiamate «schiave delle serre», perché oltre allo stipendio da fame, molto spesso subiscono ricatti, pressioni, spesso vero e proprie molestie da parte di datori di lavoro che sentendosi al sicuro, protetti dal silenzio dei campi e dalla condizione di totale subalternità delle proprie vittime, si spingono in qualche caso fino alla molestia, o addirittura allo stupro.
Anche la giornata di Erika (nome di fantasia) cominciava molto presto la mattina. E andava avanti per tutto il giorno, a sgobbare sui filari di pomodori, tra le melanzane e i meloni. Poi la sera, esausta, doveva subire l’arroganza del padrone: «Ero lì nella sua azienda da quattro mesi. Aspettò di essere solo, che la moglie fosse lontana, in paese. E così si approfittò di me».
Ha più di 45 anni, il volto è consumato dalla fatica, rigato dal sole. Eppure Erika conserva una sua dolcezza quasi adolescenziale. Per sei anni ha subito in silenzio. Ha dovuto abortire quattro volte, lei vedova e madre di sei figli rimasti in Romania, a cui mensilmente manda quasi tutto ciò che guadagna: «Da lui mai un aiuto, mai neppure una parola di incoraggiamento. Neanche un cane si tratta così». Per interrompere la gravidanza in tre casi è tornata in Romania, un viaggio di 60 ore in pullman. La quarta volta si è dovuta arrangiare da sola, con l’acqua calda, rischiando la vita. Una situazione che forse l’accomuna alle altre 94 donne rumene che nel 2014 hanno deciso di non portare a termine la gravidanza, un numero molto alto se si considera che gli aborti tra le straniere in totale sono stati 454. «Mi è dispiaciuto tanto – racconta – ma non potevo tenerli. Come facevo? Ho già altri bambini da mantenere».
Nelle campagne tra i comuni di Vittoria, Santa Croce Camerina e Acate non esiste trasporto pubblico. Per ogni spostamento, per le medicine, per l’assistenza legale, i braccianti stranieri dipendono dal proprio datore di lavoro. Quello che si crea è un vincolo di assoluta dipendenza. Psicologica ma anche e soprattutto fisica. «Pretendeva di controllare ogni mio spostamento. Mi tempestava di telefonate se non mi trovava nella mia stanza», spiega Erika.
Una notte, esausta, ha tentato la fuga: «Da allora non mi ha dato tregua, fino a quando mi ha ritrovata. Mi ha riportato indietro e mi ha mostrato la sbarra di ferro con cui, mi ha detto, mi avrebbe spaccato la faccia. La notte stessa sono scappata di nuovo, ma sono inciampata nel filo di ferro che aveva teso proprio all’uscita della mia baracca e mi sono ferita. Il giorno dopo, nella serra, mi ha visto dolorante. E senza pietà mi ha riso in faccia: che fai, non lavori oggi? Mi ha detto»
Solo i carabinieri della compagnia di Ragusa sono riusciti a salvare Erika dal suo padrone. Guidati dal tenente David Millul, e grazie alla costanza del maresciallo Valenzisi, il comandante della stazione che ha raccolto la prima informazione da una fonte confidenziale, hanno radunato le prove e finalmente fatto irruzione nell’azienda dell’uomo, ora detenuto con l’accusa di violenza sessuale e sequestro di persona. La vicenda di Erika, per quanto estrema, non è probabilmente l’unica. I racconti di violenze e abusi subiti nelle serre si rincorrono. Ma sono voci. Le denunce restano pochissime. Ci sono state le inchieste sociologiche, i reportage dell’«Espresso» e del Corriere della Sera hanno acceso i riflettori su questa realtà.
«La comunità rumena è estremamente riservata», spiega Giuseppe Scifo, segretario della Flai Cgil, e punto di riferimento «sindacale» per centinaia di braccianti a Vittoria e dintorni. «Si tratta di una presenza creatasi negli ultimi anni – aggiunge il sindacalista – Nei registri Inps del comune di Vittoria, nel 2006 erano annoverate 30-40 lavoratori rumeni. Nel 2007 erano già 1200. Oggi, in tutta la provincia, se ne contano 4.300». Chiusi, diffidenti nei confronti dell’istituzione, difficilmente si aprono e raccontano i propri problemi. Per avvicinarli la Cgil in collaborazione con una associazione che lavora proprio nel campo dell’assistenza alle lavoratrici, ha attrezzato un pulmino che attraversa i campi e accompagna le donne avanti indietro. E tra una buca e l’altra, lungo le stradine polverose che irradiano questa immensa distesa di serre, sono riusciti a prendere i primi, difficoltosi contatti con le vittime.
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