06/01/11

Femminismo al bivio: «bioreddito» o conflitto?

Pubblichiamo un intervento delle Cassandre felsinee, segnalatoci da Giovanna e pubblicato su Umanità Nova

Femminismo al bivio: «bioreddito» o conflitto?

Nell’ultimo anno, anche per l’acuirsi della crisi economica e i tagli del welfare, il dibattito femminista in Italia ha riproposto questioni che erano state forzatamente poste nel dimenticatoio e che oggi tornano invece attuali: il tema del lavoro, il nesso tra produzione e riproduzione, il rapporto fra disparità di classe e di sesso, cioè il doppio sfruttamento delle donne in casa e sul lavoro. E in questo ambito di dibattito, spesso approssimativo e incerto, ha preso rilievo la rivendicazione del «reddito di esistenza» o «bioreddito» come parola d’ordine adeguata alle sfide e alle lotte che le donne si trovano ad affrontare.
Fra i testi teorici che sostengono questa prospettiva vi è il libro recente di Cristina Morini Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo (Verona, Ombre Corte, 2010), in cui una serie di fenomeni vengono accostati in modo impressionistico, disorganico, e con un gergo analitico confuso, per sostenere che vi è oggi uno spostamento del baricentro economico dalla produzione di beni materiali alla sempre più centrale mobilitazione produttiva di risorse cognitive, linguistiche, affettive, cooperative e sociali, con un’estensione non più misurabile del tempo di lavoro che abbraccia e mette a valore la vita intera. Di qui la necessità di un «bioreddito» che riconosca e retribuisca questo «nuovo» assetto del lavoro.
Va detto subito che questa caratteristica dello sfruttamento capitalistico non è qualitativamente nuova e che l’estensione dell’orario di lavoro, il rendere subalterno il lavoratore, la sua «fedeltà», «cognitività» e «affettività» sono sempre stati messi a valore dal capitale. E non andrebbe dimenticato che la riduzione dell’orario e la «misura» del lavoro sono stati nell’Ottocento e nel Novecento l’effetto di lotte e conflitti durissimi, le cui conquiste sono state in questi decenni disarticolate attraverso la delocalizzazione produttiva e la precarizzazione flessibile del lavoro. Parlare oggi di «misura» del lavoro vuol dire poter parlare ancora di sfruttamento: se infatti il lavoro, come sostiene Morini, non è più misurabile e quindi non si può dar prova di una «misura» ingiusta della retribuzione rispetto alla ricchezza prodotta, l’ingiustizia scompare e il concetto di sfruttamento non ha fondamento. Rifiutare in sede di analisi sociale «qualsiasi statica formalizzazione» o «protagonismo soggettivo» per agire il conflitto «fuori dalla spazialità, dal territorio, dai cerchi chiusi di qualsiasi genere» (p. 48), vuol dire chiudersi in vani giochi di parole e girare a vuoto con una mappa illeggibile dell’attualità.
Tanto più che parlare di «femminilizzazione del lavoro» (anche del lavoro maschile) come mutazione «cognitiva» e «affettiva» del lavoro che si modellerebbe in generale sul «lavoro di cura», vuol dire attribuire alla femminilità e alle donne – per quanto Morini cerchi di giustificare il concetto a p. 53 come «semplificazione necessaria» – lo stereotipo patriarcale della donna amorevole, paziente, sottomessa, materna: «Questi esempi, fra i tanti possibili, ci parlano di una tipica tendenza femminile, vale a dire quella di trasferire modalità e logiche del lavoro di cura, in particolare della relazione madre-figlio che praticamente non ha confini di tempo e di dedizione, all’interno del lavoro professionale» (p. 59). Insomma, sarebbe in atto una sorta di mammizzazione del lavoratore in rapporto al suo prodotto-figlio, che non riguarda solo le donne, ma anzi trascende le differenze di genere. Nel discorso di Morini, infatti, la «femminilizzazione del lavoro» finisce per dipendere solo dalla «frammentarietà della prestazione» che tocca in principio le lavoratrici, ma investe poi il lavoro precario in genere e l’intera organizzazione sociale. Tutta l’impostazione teorica del libro è volta a omettere il fatto che vi sia una specificità del doppio sfruttamento delle donne, sul lavoro e fra le pareti domestiche: «Da questo punto di vista, le semplici e binarie dicotomie produzione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono significato, sino a spingerci a ipotizzare un processo tendenziale di degenerizzazione del lavoro» (p. 54). Di fatto, i dati statistici che qua e là Morini trascrive smentiscono questo «processo tendenziale» e mostrano invece l’acuirsi della diseguaglianza uomo-donna. Né per altro sarebbe comprensibile il fenomeno in crescita del «femminicidio» se non lo si interpreta come punta di una violenza disciplinare all’interno della famiglia che non ha solo base «affettiva», ma anche di costrizione al lavoro domestico.
Spostiamoci ora alle conclusioni. Il processo di «femminilizzazione del lavoro» si articola sulla «frammentazione della socialità» (p. 123): contrastarlo vuol dire quindi ricomporre la «socialità», «favorire il processo ricompositivo», e «sia per gli uomini che per le donne» (p. 125). Che cosa vuol dire? Da una parte si afferma che «non esistono più universi omogenei e statici (le donne, la classe operaia) che possono pretendere di parlare una lingua universale» (p. 124, e quali donne hanno mai preteso di parlare una lingua universale!?), dall’altra si tratta di «ricomporre la socialità» in un’ottica che esclude ogni possibile «distinzione binaria» o «protagonismo soggettivo». Si direbbe la solita, vecchia ricetta della socialdemocrazia: pensare la società come insieme riformabile ed escludere che chi è sfruttato faccia parte a sé sviluppando conflitto, dualità, contrapposizione. Per Morini non si tratta di rifiutare il «lavoro di cura», ma di estenderlo ad altro, di «dedicarsi alla cura del mondo» e di «puntare a una politica del paradiso in terra» (p. 137). Per sognare questo sogno paradisiaco occorre relativizzare e anzi «decostruire» ogni possibile ragione «monolitica» di conflitto: «andrebbe finalmente decostruita anche la nozione di patriarcato» (p. 124). Si tratta alla fin fine di rendere il mondo più vivibile per tutti: una prospettiva ecumenica che, a suo modo, non pare così distante dai documenti della Commissione Europea sulle «buone pratiche di conciliazione tra lavoro e famiglia» che raccomandano politiche lavorative per le donne family friendly. Né pare così distante dalla teoria sociale della Chiesa cattolica, o dalle strategie bipartisan del «doppio sì» al lavoro e alla maternità.
Nella conclusione del libro viene fuori la proposta «concreta»: quella appunto del «reddito di esistenza» o «bioreddito». Ma rivendicare una garanzia di reddito dalle istituzioni riuscirà davvero a contrastare efficacemente le politiche sociali autoritarie? È adeguato portare avanti parole d’ordine che solo ieri apparivano utopiche e ora potrebbero diventare strumento differenziale di governo e di disciplinamento nel momento in cui le istituzioni ponessero condizioni e requisiti per l’accesso al «reddito di esistenza»? Ad esempio, dal 2005 un programma di «reddito di cittadinanza» rivolto alle famiglie è stato portato avanti dalla regione Campania per «elevare il lavoro a fattore di identità sociale», contro le lotte dei disoccupati e con precisi requisiti per accedervi. Analogamente, alcuni giorni fa a Bologna il candidato sindaco del PD, ex braccio destro di Cofferati, ha posto fra i punti qualificanti del suo programma il «reddito minimo garantito». In questo ambito, si tratterà allora di distinguere con chiarezza tra progetti di controllo sociale e capacità di organizzare dal basso forme autonome di autoassistenza solidaristica.
Oggi, dinanzi all’avanzare graduale ma inarrestabile della crisi capitalistica, la teoria politica si trova in una fase di sorpresa e di smarrimento. Tutti i discorsi consociativi e progressisti degli ultimi trent’anni (i vari happy end: la «fine della storia», la «fine del lavoro», la «fine delle ideologie», la «fine del patriarcato»...) appaiono come decorazioni inconsistenti a margine di un’epoca di benessere in Occidente e di devastazione del mondo. E quell’idea marxiana – rifiutata in ogni modo negli ultimi trent’anni come obsoleta, astratta, arbitraria – secondo cui il capitalismo procede per cicli di sviluppo che si chiudono sul nesso crisi-disciplinamento, resta uno dei pochi schemi analitici in grado di spiegare come mai l’happy end del capitalismo trionfante corrisponda all’impoverimento rapido delle società sviluppate e all’incrementarsi degli scenari di guerra. Così il pensiero postfemminista si trova oggi di fronte a un aut aut: o proseguire nella funzione ideologica elitaria svolta dal «pensiero della differenza», appoggiando la conciliazione famiglia-lavoro, l’utopia ambigua della fessibilità ben retribuita, le mitologie familiste della «maternità», cioè teorizzare un «ruolo della donna» come collante sociale di una società che cade a pezzi; oppure riconsiderare la lotta delle donne del Novecento per riproporre le ragioni del conflitto e per costruire un’autonoma prospettiva di liberazione dal patriarcato e dal capitalismo.
E in questa chiave crediamo che si tratti di lavorare per uno «sciopero generale delle donne», non solo dentro quadri sindacali sempre più angusti, ma soprattutto come strumento di denuncia e di mobilitazione contro lo sfruttamento di sesso e di classe.

Cassandre felsinee

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