Pubblichiamo molto volentieri un articolo inviatoci dalla Filosofa marxista Carla Filosa, apparso sulla rivista La Contraddizione nel dicembre 1993.
LA CRISI DI LAVORO E IL SUO DOPPIO
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Carla Filosa 1
Come un fulmine, il vostro antico comandamento
di essere buona e di vivere bene, mi ha squarciata in due parti.
Qualcosa dev’essere sbagliato nel vostro mondo.
[Bertolt Brecht, L’anima buona del Sezuan - scena del tribunale]
Donne come rapporti di capitale
Affrontare lo specifico del lavoro femminile qui ed ora, cioè all’indomani dell’accordo del 3 luglio e in Italia (stato, nazione o “espressione geografica”?), diviene significativo solo se rinvia all’analisi della nuova divisione del lavoro capitalistico-transnazionale a livello mondiale. Se infatti volessimo toccare l’argomento limitatamente a ciò che l’esperienza rende evidente, avremmo l’ormai consueta, e purtroppo appagante di per sé, conoscenza irrazionale del razionale - per dirla con Hegel; ovvero potremmo tutt’al più arrivare a costruire una rappresentazione soggettiva del fenomeno in questione, senza accedere alla dovuta concettualizzazione della situazione globale, la cui determinazione soltanto ci dà conto delle sue differenze interne. Ciò che si vuole evitare, in altri termini, è quella sosta inerziale sulla concezione separata del femminile, in specie nella sua particolarità lavorativa, come un che di socialmente assegnato, di negativo, di contrario o contraddittorio, ecc., senza mai riuscire a giungere alla sua costituzione in termini di realtà universale.
Analoga errata concezione (da sottoporre nella prassi al confronto critico con un diffuso sapere basso, per lo più di ispirazione differenzialista) sarebbe ancora quella di individuare, come fissata, la subordinazione o coordinazione dei ruoli femminili - per dar luogo al fine a sterili conoscenze episodiche, e peggio, a strascichi di conseguenti prese di posizioni politiche dal dubbio esito (ad esempio, le “quote” riservate, senza un’adeguata strategia di sostegno) - e non invece cogliere la relazione di quegli stessi ruoli nel progressivo mutamento del loro determinarsi. Chi poi volesse ridurre a mero calcolo statistico la problematica riguardante l’occupazione femminile, e di qui risalire a considerazioni di natura sociale, storica o addirittura psicologica, non farebbe altro che rabbassare ogni possibilità della sua concettualizzazione alla rappresentazione approssimata dei soliti morti segni tra loro affatto estrinseci, e pertanto privati dell’effettiva significatività ed incidenza di trasformazione sul reale.
Ciò che si vuole proporre è, al contrario, l’analisi della totalità socio-economica tanto nella sua determinazione storica materiale quanto in quella riflessiva, secondo le categorie marxiane, che pongono la centralità del modo di produzione a criterio scientifico di collegamento delle determinazioni opposte insite nel lavoro salariato (oggi interne anche alla contrattazione di crisi: d’ingresso, interinale, ecc.) e nel rapporto di capitale. Ricondurre ad unità analitica le variegate forme dell’attuale divisione internazionale del lavoro significa pertanto poter individuare, entro lo stesso processo storico, le differenze (tra cui il lavoro femminile od anche la “femminilizzazione” dei lavori) poste - e non rozzamente trovate - dal punto di vista della loro interna dinamica e relazionalità, nonché funzionalità al sistema, differenze caratterizzate perciò dalla violenza strutturale ma anche dall’ineluttabile caducità del loro esser tali. Quest’ultimo punto permette inoltre di cogliere le trasformazioni storiche non come banali veicoli di “novità”, o mistificazioni reazionarie del tipo “l’Italia che cambia”, ma come elementi di transizione epocale, ovvero di materializzazione dei rapporti sociali la cui direzionalità può indicare una fuoriuscita dal sistema, che la soggettività cosciente può allora organizzare e accelerare secondo le forme possibili.
Dai problemi lavorativi alla subordinazione sociale in toto dell’universo donna, a livello mondiale e locale, è rilevabile infatti la specificità “sessuata” dell’estrazione di plusvalore, entro però la costante trasformazione della valenza storica di tale differenziazione, e quindi entro la sua combattività come necessaria possibilità di superamento sia della propria condizione sia del sistema, senza dover ricorrere ad ipotetiche quanto metafisiche “differenze”, capaci al più di interpretare staticamente l’esistente o porlo come altro rapporto di forza rivendicativo accanto agli altri già dominanti. Va da sé che ogni analisi e denuncia delle condizioni di inferiorità sociale è strumento indispensabile di coscienzializzazione e lotta. Proprio perciò non può limitarsi alla doléance o al “risentimento” o all’accaparramento di meri diritti rivendicativi legati all’immediatezza politica, al contare tout court e comunque, se non si vuole perpetuare il disegno di un sistema che sopravvive in quanto è sempre più capace di creare la sublternità, la mendicità sofferente, o per farne voti o per esibirla, una volta entrata nel gioco delle regole stabilite, come arma di ricatto omologante contro coloro che ne sono rimasti fuori, e non potranno che continuare a lottare, soli, contro la fame e la morte. Individuare la logica della ghettizzazione per distruggerne i presupposti, significa allora portare la lotta per l’emancipazione oltre la separatezza voluta dal capitale, e, tendenzialmente, dentro i gangli stessi della sua riproducibilità “superabile”, non certamente eterna.
Sfruttamento sul versante femminile
Tutta la letteratura che ultimamente si è interessata al modo in cui il lavoro capitalistico ha liberato la donna - sin dalla prima lontana rivoluzione industriale che
“banalmente” aveva estratto dalle case la sua inesauribile forza-lavoro - ha còlto i mille rivoli occulti o palesi in cui invece tale forza-lavoro doveva continuare a servire il sistema, o meglio, non poteva che servirlo mediante l’estorsione di un consenso di fatto automatizzato. Naturalmente questo obiettivo tendeva al complessivo abbassamento coscienziale delle classi lavoratrici, ma apparentemente si dirigeva solo contro la donna, relegandola, in modo possibilmente stabile, ad una funzione di indispensabile, vantaggiosa disgregazione all’interno della classe da sfruttare, di cui così si dimezzava la forza d’urto e la capacità di crescita.La perdita progressiva o proprio la deviazione ab imis di un’identità di classe, sul versante femminile, è stata così alimentata materialisticamente nelle condizioni oggettive (lavoro pagato meno o gratuito, stazionario ai bassi livelli retributivi, fluttuante, ecc.), e in quelle soggettive, già ampiamente colonizzate da tutto l’apparato secolare della strumentazione patriarcale, ereditata anche da questo sistema. Mentre infatti la donna entrava nell’epoca del capitale, formalmente eguagliata sul mercato dello sfruttamento, diveniva concretamente l’oggetto di una frantumazione materiale e coscienziale inesauribile. Era infatti “eletta” depositaria di un doppio ruolo lavorativo, e di una identità sociale possibile ma a patto di fare prima i conti con tutte le pastoie dei modelli culturali oppressivi delle società precapitalistiche, sopravvissuti appositamente per imbrigliarne le energie di emancipazione, come pure con quelli derivanti dallo sviluppo tecnologico che il capitale è costretto a rivoluzionare, in risposta alla concorrenzialità tra capitali e alla conflittualità col lavoro.
Innanzi tutto tale eguaglianza era effettiva, nel senso che anche alla donna veniva offerto il modello lavorativo come libertà (Arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”, era scritto agli ingressi dei lager nazisti, non per ovvia crudeltà - come si è voluto far credere - ma secondo il più genuino e sincero comando capitalistico, appena rinverdito nella gerarchizzazione necessaria al mercato unico!), libertà di disporre autonomamente delle proprie nuove catene, ma contemporaneamente libertà anche di essere in prima persona un nuovo polo di definizione del capitale, “bisognoso” di un bacino di sfruttamento sempre più ampio. Siffatta eguaglianza però, in quanto forgiata per la sola libertà del capitale, veniva negata nella praticabilità promessa, mediante una profonda divaricazione tra “lavoro” e “famiglia” (in cordata con sponsor e manovali della religione soccorritrice). Questo obbligava così la donna a sostenere un impossibile tempo pieno su due fronti e, in momenti di crisi o di semplice variazione del mercato, a recedere colla potenza dei ricatti affettivi (aspetto particolare della più generale “potenza estranea” al vivere sociale, che il capitale rappresenta) sulle infinite funzioni materno-assistenziali-gratuite, che il sistema lasciava appositamente inevase o discrezionalmente distribuite per il formarsi elitario di ulteriori divisioni di classe. La complementarità funzionale del lavoro femminile in quanto “residuo” di tipo feudale - da rinfocolare in tutti i periodi di crisi attraverso l’ideologizzazione della centralità della famiglia/olocausto - verrà sostenuta finché i costi sociali di una sua sostituzione risulteranno maggiori dei vantaggi derivanti dall’attuale risparmio occulto di capitale.
Il “lavoro dell’amore”, ampiamente glorificato dalle mille voci dell’apparato ideologizzante, altro non è, quindi, che il meccanismo divenuto autoselettivo (cioè culturalmente interiorizzato) di espulsione dalla salarizzazione di un lavoro utile, formalmente fuori dal processo di mercificazione, ma sempre pronto per rientrarvi all’occorrenza. Questo è doppiamente funzionale a costituire: a) una stratificazione ulteriore dell’esercito di riserva lavorativo disponibile ai costi più bassi, altrimenti definito dalle cosiddette soglie di povertà; b) un sostegno invisibile, in quanto culturalmente “normale”, al risparmio dei costi di riproduzione del capitale - dove la donna è posta come faux frais di produzione, a carico di se stessa e della società anziché del capitale medesimo.
Ambedue gli obiettivi sono conseguiti costituendo la riserva femminile come possibilità di attingere ad un valore d’uso senza valore (che si ha quando cioè l’utilità non è ottenuta mediante lavoro, come aria, natura, in genere non appropriata, e quindi appropriata gratuitamente dal capitale), come se la produzione lavorativa femminile fosse effettuata per soddisfare bisogni propri, privati e non anche valori d’uso per altri, valori d’uso sociali. L’eliminazione, infatti, dal mercato dello scambio in cui questo lavoro dovrebbe essere remunerato, avviene per lo più culturalmente: esclusivamente concepito per rendere inferiore chi lo eroga, viene disconosciuto socialmente attraverso il capovolgimento della causa con l’effetto.
La sua radiazione dal mercato delle merci diviene così la “conferma” del suo non essere valore, e non invece il presupposto per cui, pur essendo produttore di ricchezza sociale a vantaggio del capitale, non ne risulta formalmente sottomesso, ma, in più, consente sempre al sistema di contare su un sofisticato meccanismo di dipendenze, sotto sembianze umane. Siffatto inestricabile intreccio, personalizzato inoltre in un soggetto sociale (qui la donna, ma il meccanismo può ripetersi in diverse sfumature con ampia generalizzabilità), per natura reso dedito ad umiliare qualunque sua attività, non può così che dare accesso o alla riproduzione del consenso anche delle nuove generazioni nelle divisioni di classe; o, in alternativa, autoeliminarsi nelle varie forme dell’emarginazione sociale - dalla psichizzazione della “malattia mentale” alla criminalizzazione delle forme di dissenso significativo, passando attraverso tutte le variopinte forme di disprezzo pubblico per ogni scelta “difforme” dalla normativa etico-religioso-tradizional-sociale, che della donna fa il cardine del proprio imperituro potere. Dal mito arcaico alla pletora illimitata di quelli moderni, l’identità della donna può infatti solo oscillare entro i confini posti da un potere di definizione funzionale al maschile (uso del patriarcato), di integrazione/emarginazione, al di là del quale ogni ricerca di identità altra, culturalmente autonoma dal potere dominante, si scontra col problema del rivoluzionamento delle basi materiali del potere stesso, in quanto fondato su tutte le forme di sperequazione sociale, varianti storiche di quella fondamentale di classe.
Tanta importanza nella donna, quale fulcro di sottomissione speculare alla dominanza, risiede nel fatto che il potere di classe ha continuato a rinnovarsi sulla formula ormai scontata, ma mai abbastanza per le masse, del divide et impera, di cui la donna ha rappresentato un vero e proprio capolavoro: una maggioranza che “funziona” da minoranza, al pari di quelle numericamente tali, etniche, razziali, religiose, ecc. Obliterato pertanto ogni nesso quantitativo sia nell’habitat pubblico subito contrapposto a quello privato (spezzandone cioè ogni relazionalità dialettica), l’invisibilità sociale femminile è stata perseguita con ogni mezzo, fino ai segnali esteriori di un vestire colpevolizzante od escludente (veli sul capo, chador, grembiuli, paludamenti che nascondo il corpo, o, al contrario, che lo esaltano al solo scopo di reificarlo a tutti i livelli d’uso della piramide sociale). Il capitale soltanto - a differenza degli altri sistemi precedenti, la cui produzione era essenzialmente finalizzata ai valori d’uso, non cioè universalmente socializzante - è stato costretto ad incrinare contraddittoriamente tale perfezione, impotente a non doversi servire anche di questo serbatoio di forza-lavoro da immettere nella massificazione salariata del processo produttivo.
È proprio in quest’epoca, quindi, che le donne articolano le prime lotte sociali e di classe, aiutate dalle guerre e dalle fasi di crisi o ristrutturazioni (ascesa del macchinismo industriale, uscita dalle recessioni e ripresa dell’accumulazione), in cui il loro lavoro, di pari passo a quello infantile analogamente debole (nel mercato), era preferito per il minor costo e la minore combattività, o proprio per sola fisiologica disponibilità. La minoranza femminile è così emersa, dal sangue che il capitale aveva versato per riequilibrare la sua concorrenzialità o che aveva necessità di succhiare nella forsennata estrazione del plusvalore, lottando per pareggiare i conti numerici in termini quanto meno di diritti sociali. Con capitalistico stupore ci si è accorti allora che, siccome l’”altra metà del cielo”, più numerosa e più oppressa, avrebbe potuto costituire almeno un terremoto in tutti i cardini su cui il sistema poggiava in sicurezza, si doveva rafforzare la guardia sferrandole contro una guerra non dichiarata, anzi dissimulata a parole, da combattere senza esclusione di colpi.
“Dall’angelo del focolare” all’“angelo del ciclostile”, la donna diviene così oggetto della violenza particolare del sistema (in grado di servirsi brillantemente degli schemi sociali acriticamente funzionanti anche, e a volte soprattutto, nei “maschi” della sinistra sedicente rivoluzionaria), perché su di lei sono impiantate tutte le divisioni possibili che, come un’infezione, dovrebbero essere anche da parte sua estese al resto della società civile. Nulla viene risparmiato nei suoi confronti. Dal ripristino della stregoneria (il “movimento per la vita” ha riesumato i livelli medioevali dell’esorcizzazione di una parità femminile, perfino con le “indemoniate” di papa Wojtyla!), ai ricorrenti tentativi di inchiodarla al giogo familiare, ad una sua più moderna “valorizzazione” nelle varie forme sotterranee e non di volontariato (in questo eguagliata a tutta la forza-lavoro sfruttabile), quale ultimo connubio tra charitas e capitale, ugualmente avvalentisi del prezioso lavoro gratuito ed integrato/integrante a un tempo.
Modernizzazione e “donne virtuali”
Limitandoci per il momento al nostro recentissimo angolino boreale, anche alle donne è dato sentirsi ormai cittadine dell’Unione Europea e, come tali, anche a loro è concesso il balletto all’interno delle flessibilità della inoccupazione creata dalle rigide esigenze dell’accumulazione, altrimenti definita “dialogo europeo”. Lo smantellamento dello stato “assistenziale” e pertanto la riduzione dei costi sociali mette intanto a disposizione del fruitore-donna la nuova, gratificante sensazione di interagire proprio alla pari con il processo di modernizzazione, mediante un aumento di lavoro suppletivo, quello sì, assolutamente “personalizzato”. Essendo poi per antonomasia il destinatario cui spetta in sorte il doppio dei sacrifici, richiesti alla popolazione in genere, la particolarità donna subisce il maggior peso rilevato dai risparmi statali, anche quando statisticamente è rilevabile come non-forza di lavoro, chiamata sempre a giustificare se stessa con incombenze prive di soluzione di continuità temporale nella dicotomia privato/pubblico. “Realizzata” quindi in questo eterno schiacciamento del suo essere funzione di qualcosa o qualcuno, “rassicurata” dall’indispensabilità della sua presenza utile dentro/fuori, la donna in via di modernizzazione può tranquillamente procedere nel suo affascinante ruolo concreto/virtualizzato - da cui più facilmente potrà poi rimuovere ogni barriera coscienziale con cui conquistare una propria identità sociale e individuale - divenendo solo “esperienza” preordinata di un prodotto-immagine-cui-conformarsi, in vendita e contemporaneamente da tesaurizzare, proprio come un lingotto d’oro garante e sempre spendibile.
La “virtualizzazione” (per parlare alla moda) dell’esperienza omologante, o, in termini scientificamente più comprensibili, la sottrazione di un reale oggettivo entro cui l’esperienza si sviluppa in forme di conoscenza soggettiva, è doppiamente indirizzata contro la donna costantemente bombardata da messaggi coercitivi, nella forma però partecipativa del consenso se non addirittura della “domanda” (si pensi ai “bisogni” di essere belle, disponibili, ecc. secondo il modello definito dal maschile, al di là del quale si incontra scherno, rifiuto, se non violenza). La disponibilità mentale femminile è il banco di collaudo di un sistema che, particolarmente in fase di crisi, esige di rattrappire ogni spazio individuale e sociale che non coincida con la libertà di scelta del mercato e di tutte le sue nicchie, usando tale disponibilità per rafforzare ogni stereotipo ma anche per creare, o clonare “risorse umane”, che ne siano inesauribile pubblicità o semplicemente gratuita appropriazione di plusvalore.
Nel pacchetto “modernizzazione” il consenso diviene la conditio sine qua non della ristrutturazione in atto. Essa deve sottrarre, o proprio cancellare, ogni identità che non sia disponibile ad aderire al comando predisposto, se non direttamente, nella forma del mito attraente (che esclude cioè un approccio razionale, come la droga, la mistica, ecc.), da “scegliere” tra alternative aliene altrettanto preordinate in maniera unidirezionale dall’alto, senza scampo, altrimenti, dall’uscita emarginante in ogni settore dal quale ci si attende un “riconoscimento” sociale, o nel quale porre soltanto i termini dei problemi secondo criteri non colonizzati (nella guerra del Golfo, ad esempio, non fu possibile prendere le distanze da Bush e Hussein contemporaneamente, bisognava “tifare” per l’uno o l’altro, ecc.). Il rafforzamento del comando transnazionale (degli esecutivi, delle commissioni di garanzia, dell’authority dell’arbitrato, ecc.) è realizzabile, così, a patto di un adeguamento senza condizioni del sociale, il che significa eliminazione di ogni controllo o capacità organizzata di dissenso dal basso.
È per questo che dalle normative comunitarie ai pulpiti ecclesiastici risuona un’unica parola d’ordine con cui telecomandare il cosiddetto “capitale umano”: conciliare, armonizzare! Tutti gli sforzi del momento sono vòlti a mostrare che, nella mancanza di alternative (propaganda del “crollo del comunismo”) a questo sistema, qualunque conflitto con la società civile deve e può essere rimosso, per gestire in totale libertà di manovra la conflittualità internazionale tra capitali, per ora nelle forme “pacifiche” della concorrenza, della guerra commerciale (Gatt), degli investimenti amministrati dal Fmi, dalla Banca Mondiale, ecc. La “cultura delle regole”, dopo aver smantellato quelle precedenti ancora legate alla forma dello stato liberale, deve perciò imporsi per evitare alle masse da sfruttare “sfasature tra regole e comportamenti”, cominciando ad impedire manifestazioni e scioperi, là dove ancora si riescono a fare, in attesa di abrogarne definitivamente e legalmente l’esistenza.
Astrarre e valorizzare l’indifferente
È forse in quest’ambito che l’uso della donna spicca con ineguagliabile privilegio. Tradizionale punto di mediazione dai conflitti privati a quelli sociali (si pensi all’interiorizzazione dell’inferiorità che si esprime, rivolta ai familiari, nella necessità di rifugiarsi nella prudenza, nella rinuncia, nell’attesa, nella passività, ecc. - sue uniche difese nella sopravvivenza!), è lei lo strumento da marchiare a fuoco con un consenso umiliato, portato alla sublimazione nel prodigarsi espiatorio e capillare attraverso la solidarietà e l’amore. Ecco che si apre sempre più ogni canale che può rendere la donna l’utile specchio deformante dell’uomo, proprio a partire dalle sue prioritarie, quasi trascendenti deformazioni o mutilazioni senza più perché. Di qui il motivo per cui, di fronte agli stupri “etnici” delle bosniache, il papa, reduce dalle vittoriose trame contro il “comunismo reale”, si abbandona agli eccessi politici in difesa degli oppressori che identifica senza problemi con “la vita”, contro le oppresse che dovrebbero accogliere la negazione di se stesse fino al rifiuto dell’aborto/violenza vissuta. Quasi come una condanna biblica.
Emblematicamente, tale esempio rappresenta efficacemente il ruolo che la “modernità” esige dalla donna: “la vita”, quella del sistema, si rinnova sulle fondamenta approntate di uno stampo patriarcale, di per sé giustificatore di ogni violenza nei confronti anche di una coscienza storica maturata oltre, che però, in quanto si considera sempre dominata, deve abdicare ogni scelta autodeterminante all’imperio di una eteronormatività, la Morale (si “apprenda” dalla Veritatis Splendor!), che predispone il terreno all’obbedienza generalizzata per ogni flessibilizzazione perpetuamente esigibile. Il rafforzamento dell’esecutivo (dal modello papalino in poi) si gioca così sul “consenso”, quale chiave di continuità nell’affermazione della gerarchia, dell’unità del comando, della divisione in ruoli sociali fissati (direzionati verso la divisione del lavoro, oggi sempre più articolata), della selezione, dell’addestramento e della collaborazione vantaggiosa - che poi si identifica, guarda caso, proprio con l’ormai vecchia, cara organizzazione tayloristica del lavoro.
Dio, e quindi il capitale, forgiano gli esseri umani di cui cancellano tutte le qualità sensibili a loro immagine e somiglianza, e pertanto li eguagliano a sé nell’astrazione del lavoro (inteso da ambedue come “condanna” in quanto prima soggetto alle forze della natura, poi a quelle sociali ed ora al comando di quelle proprietarie). La forza lavorativa umana accumulata apparentemente sparisce dalle merci come dalla società appropriata, e con loro ogni differenza, che appunto esprime il rapporto sociale dell’appropriazione privata e dell’assoggettamento dispotico. Siffatta astrazione non significa quindi fine o inesistenza, bensì occultamento delle differenze qualitative come nelle merci così anche nella forza-lavoro, la cui concretezza e specializzazione d’uso, nella determinazione storicizzata, è quella che sola dà valore ai prodotti del lavoro e permette la valorizzazione del capitale. Quindi, se i dati relativi alla specificità femminile del lavoro non sempre sono facilmente rilevabili, è proprio perché esso è astrattamente lavoro eguale ma nel contempo concretamente diverso, nella differente gestione del suo reclutamento ed erogazione, in cui sono nascostamente inglobati i meccanismi marginalizzanti socializzati che lo relegano ai livelli bassi del mercato, dalla sua iniziale disponibilità, alla durata o continuità fino alla sua fase terminale.
L’adattività e la specificità di “genere” (intese sempre come dati fissi) costituiscono pertanto una “risorsa” particolarmente utilizzabile nella ristrutturazione attuale, mediante alcuni incentivi competitivi quali la carriera, la valorizzazione della differenza, ecc., usati come automatismo del consenso, innanzitutto per conseguire la spontanea, volontaria, necessitata rinuncia alle conquiste sindacali precedenti (si pensi alla normativa sulla maternità, anche a livello Cee). Questo tipo di coercizione consensuata ha una doppia valenza: a) economica, in quanto funzionale ad un aumento dell’intensificazione del lavoro erogato, che in lingua padronale suona come “produttività”, a partire dall’eliminazione delle “assenze” o altre porosità; b) sociale, dato che permette un’affermazione “democratica” sostanziata dall’accoglimento concreto dell’istanza delle “pari opportunità”, che sostanzialmente debbono “pareggiare” il rendimento lavorativo come “risultato”. Quest’ultimo, infatti, è un altro modo ancora per emarginare lo svantaggio di partenza, negato proprio dall’apparente “parità” giuridico-formale che ne occulta la selettività sotterranea nel reale. Né la logica del risultato può essere oggi accolta come valida, se non accompagnata dalla lotta di demistificazione ed eliminazione degli svantaggi reali riguardati come “normalità”.
Tale strategia del consenso coatto può ritenersi analoga a quella usata nei confronti di un’altra minoranza (considerata tale solo perché divisa da paese a paese), quella degli immigrati, il cui inserimento e integrazione “democraticamente” auspicati, prevedono la “valorizzazione” delle differenze culturali indifferenti alla formazione di forza-lavoro, perché funzionali allo scardinamento di una cultura di classe multietnica e di ogni capacità organizzativa difensiva sul mercato del lavoro. Dal 1867, in cui Marx denunciava “l’uso perverso dei lavoratori stranieri come strumento contro quelli locali”, agli united colors di Benetton - che alludono solo ai sorridenti consumatori, resi anch’essi astratti dal contagio feticistico delle merci, e non anche ai produttori divisi - il passo è breve. Il razzismo così, spesso accostato all’esclusione sessuale, in questo senso pone bene in evidenza i fattori di privazione/disprezzo dell’identità originaria per costruire esseri insicuri e socialmente ricattabili sul piano dell’”utile”, unica categoria realmente egualitaria del capitale. L’astrazione razzista gioca anch’essa il ruolo di contraddittoria alleata della “democrazia”, in quanto se, tra l’altro, contribuisce a mantenere nei ranghi retributivi inferiori forza-lavoro, appunto razzizzata, d’altro canto può produrre fenomeni di risposta sociale (si pensi ai roghi dei turchi in Germania, e non solo), controproducenti per le stesse aziende (Opel e Daimler hanno offerto 100mila marchi per la cattura dei neonazisti responsabili della strage) che vedono inopportunamente sfumare investimenti stranieri e manodopera a bassissimo costo.
Anche la geografia sembra ulteriormente confermare la subordinazione femminile, anche se con un’attenzione maggiore la dicotomia nord-sud non rivela altro che i segni di una dipendenza solo regionalizzata - analoga a quelle delle nazioni “in via di sviluppo” - di cui le donne portano un peso raddoppiato di permanenza nella “povertà” in termini di circolo vizioso (l’esclusione della donna dal lavoro comincia con l’“indisponibilità” a presentarsi sul mercato, causata dal sottosalario che ne favorisce l’uscita, a sua volta causa dello scoraggiamento a rientrarvi, non facendola risultare così neppure sulle statistiche della disoccupazione).
Una curiosità: tradizionalmente usata nella versione casalinga, la donna rischia di essere “liberata” ancora una volta dalla tecnologia del capitale che ultimamente sta mettendo a punto la robotizzazione nei servizi, anche quale concorrente nel ruolo di colf. La “sposa-madre-esemplare” a tutto servizio, come si legge sulle lapidi cimiteriali e come in particolare nel sud italiano viene vissuta quale obiettivo di vita femminile, potrebbe essere scalzata come banalizzazione dell’esistenza non più adeguata al capitale, continuamente e contraddittoriamente progressivo rispetto alla propria organizzazione sociale. Ciò che importa, in questo esempio simbolico, è la messa a fuoco del divario (o convergenza) tra le forme sociali di vita residuali di altre organizzazioni storiche - permeate nel vivo di una coscienzializzazione colonizzata soprattutto dai consolanti messaggi ecclesiastici - e le esigenze dell’accumulazione di capitale, che spinge in avanti le trasformazioni materiali e ideologiche finalizzate in modo sempre più compatto all’estrazione competitiva di plusvalore. Divario questo, la cui contraddittorietà tende a “superare” le basi stesse delle leggi storiche dell’accumulazione.
Colpire al “cuore” la proletarizzazione
Il presente è caratterizzato da una stretta dispotica senza precedenti, in quanto effettuata a livello planetario a seguito dell’avvenuta unificazione del mercato ancora allo stato potenziale, e che vede la crisi di capitale trasformata in crisi di lavoro. Quest’ultima viene realizzata nei paesi industrializzati come il nostro per lo più “tecnicamente”, mediante la contrattazione concertata da un dispositivo neocorporativo che ha annullato ogni forma di opposizione, con l’inglobamento sindacale negli obiettivi di coercizione economica e sociale. La precarizzazione di ogni livello occupazionale è condizione di ricattabilità utile all’estorsione di una giornata lavorativa allungata, e cioè all’ottenimento di un aumento di plusvalore relativo (aumento delle ore non necessarie alla ricostituzione delle energie erogate, ma produttive di valore in più appropriato dal capitale, e non retribuite). Il “lavorare meno, lavorare tutti” è stato tradotto in formule frantumate e irriconoscibili di un lavorare tutti di più (in modi nascostamente complementari), retribuiti meno, sommergendo socialmente quel “tutti” nel sottobosco del lavoro nero, prestato, occupato, “disoccupato” (costretto ad “arrangiarsi”), “femminilizzato” (relegato rigidamente a retribuzioni più basse o senza prospettiva di miglioramento, secondo il fortunato modello giapponese). La tradizionale segregazione, dequalificazione (nel senso anche del non riconoscimento della qualificazione conseguita), discriminazione retributiva anche con sensibili differenziali salariali, ed emarginazione in genere riservata al settore femminile si allarga contingentemente all’universalizzazione della fase di crisi.
In tale situazione, in cui non sarebbe difficile giungere alla privazione di fatto e senza alternative di ogni diritto difensivo, anche della vita, la condizione femminile non può che essere riguardata nella forma comprensiva dell’internazionalizzazione determinata dal capitale. Alla stratificazione delle dipendenze, non più solo nazionali, ma geografiche, etniche, ecc. imposta dall’impero delle multinazionali corrisponde una relativa, differenziata dipendenza in subordine delle condizioni di vita della donna. Stratificata anch’essa in classi sociali, di cui non può cogliere facilmente la diversificazione od opposizione di interessi e conflittualità politica, finché identificata per natura con l’identità di genere - non a caso favorita dalle ideologizzazioni di tipo radicale più innocue per il sistema -, le potenzialità di lotta per la sua emancipazione umana (e poi politica) risultano per lo più convertite nelle forme di parcheggio, se non proprio di reazionarietà sociale in cui comunque, contraddittoriamente, aumenta la sua presenza visibile.
Benché sempre meno riconoscibile, il capitale non può che riaffermare il suo dominio di classe, creando, proprio per l’assolutizzazione della sua egemonia, una proletarizzazione crescente della classe sfruttabile di cui però è costretto a dividerne ruoli, mansioni, coscienza o, più semplicemente, potenziale di lotta antagonista. La divisione uomo-donna, utile eredità del passato, è un cardine essenziale della sua vitalità riproduttiva, in quanto pone la ricattabilità di classe nel livello esistenziale (non solo il ricatto è economico, ma si riflette così due volte sull’economico), nel cuore - è il caso di dirlo - della vita stessa e della sua riproduzione naturale. Perseguito materialmente e culturalmente con ogni modernizzazione del ruolo pretesco (oggi perfino i sindacati!) tale dissidio - divenuto storicamente quasi insondabile - la potenza del capitale può così estendere la sua disumanizzazione progressiva come scaturendo dai “bisogni” stessi degli sfruttati, resi, attraverso il consenso inconsapevole a tale “differenza”, i suoi ciechi e più convinti agenti.
Il riconoscimento teorico delle nuove forme di oppressione, che il capitale avanza con la coercizione delle armi e del consenso “democratico”, è condizione necessaria per l’unificazione progettuale dei predestinati a questo massacro continuamente in atto. Sarà forse sufficiente, però, solo quando la classe mondiale, indistinta nella sua organizzazione e nell’accoglimento reale del conflitto, potrà accrescere con le sue mille differenziazioni le mille tendenze alla dissoluzione, che il sistema stesso sta continuando a determinare. La “disoccupazione” per ora non si risolve, gli “accordi” (Maastricht) restano sulla carta, gli scannamenti tra cosche rivali di stampo massonico (Scalfaro, Mani Pulite, solo per restare in Italia) non accennano a diminuire, le guerre sono sempre più necessarie alle industrie di armamenti, ovvero ai poteri militari, ecc. Se anche il sistema dovesse ancora rivitalizzarsi, non potrebbe farlo se non acuendo contraddittoriamente il divario tra produzione di ricchezza e pauperizzazione crescente.
Da fulcro di divisione, le donne possono trasformare il potere loro delegato nell’oppressione, in fulcro cosciente della necessità di un’unione in grado di lottare contro la disumanità di cui si voleva fossero complici subalterne. Come e con quali tempi ciò sia possibile, per quanto dipende dall’apporto della soggettività, come rappresentata nella figura signoria/servitù hegeliana, lo realizziamo tutti in ogni rifiuto alle false armonizzazioni, nella pratica di una lotta purtroppo individualizzata ma ancora non estinta. Per ora non sembrano storicamente visibili tendenzialità rassicuranti, ma la nostra forza dipende anche da quanta capacità riusciremo ad esprimere nel continuare a combattere, sapendo di andare incontro a possibili sconfitte contingenti. Ogni donna fa questo da secoli, bisogna che ora lo sappia.
1"Tra Medea e Penelope" - Le donne nella ristrutturazione capitalistica tra mito e sfruttamento - è il titolo del Convegno svoltosi a Bologna il 6/7 novembre 1993, coordinato da Rifondazione Comunista, gruppo consiliare al Comune di Bologna, e Radio Città 103. L'analisi qui riportata costituisce la base della comunicazione effettuata al Convegno, arricchita degli elementi emersi dal dibattito che si è tentato di inserire per quanto possibile.
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