(Da infoaut)
È
 da poco uscito il report curato da ActionAid (Cambia Terra. 
Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura, 2022, 
relativo a una ricerca condotta sul campo per raccogliere dati sullo 
sfruttamento delle donne nell’agricoltura meridionale.
“ActionAid
 ha concentrato le sue attività nell’Arco ionico, in particolare nei 
Comuni di Grottaglie e Ginosa in Puglia, Scanzano Jonico e Matera in 
Basilicata e Corigliano-Rossano in Calabria. […] L’Arco ionico è 
caratterizzato da un’ampia superficie agricola destinata principalmente 
all’ortofrutta (fragole, angurie, pesche, albicocche, pomodori, 
cavolfiori, finocchi, peperoni, asparagi, mandorle, etc.), 
all’agrumicoltura e alla viticoltura. La scelta di intervenire in 
particolare in quest’area dell’Italia meridionale è legata alla grande 
rilevanza a livello nazionale delle filiere agricole che la 
caratterizzano, in cui la componente lavoro è fondamentale per 
realizzare le produzioni più diffuse” (ActionAid, Cambia Terra, cit., p.
 45).
Chiaramente il dato ufficiale dei braccianti agricoli 
impiegati in questi territori non tiene conto dell’esercito degli 
invisibili che vivono di lavoro nero, irregolari e alloggiati in maniera
 precaria negli stessi territori di produzione. Braccianti spesso senza 
permesso di soggiorno e privi di una qualsiasi forma di tutela 
contrattuale, nonostante il blocco imposto dalla pandemia abbia favorito
 un maggior utilizzo di braccianti comunitari viste le “maggiori” misure
 di controllo. Nella fase pandemica, infatti, si è registrata anche 
un’inversione di tendenza delle politiche occupazionali in agricoltura. 
La paura del blocco produttivo per l’impossibilità di raggiungere i 
campi da parte della manodopera comunitaria ed extracomunitaria ha dato 
luogo alla sperimentazione di iter burocratici semplificati per 
l’ottenimento di permessi di soggiorno e contratti lavorativi. Da forme 
di apartheid a forme “inclusive” a solo vantaggio dei proprietari 
terrieri. Nonostante ciò, molti studi fanno emergere la sostanziale 
inadeguatezza di tali politiche rispetto al problema del lavoro nero 
svolto spesso in condizioni di schiavitù e, visti i livelli retributivi,
 in un regime che potremmo definire di lavoro gratuito.
Dalla 
lettura dei dati raccolti dai censimenti agricoli si evidenzia una 
drastica riduzione di aziende agricole e una diminuzione, meno evidente,
 di superficie agricola utilizzata (SAU), che confermano il “fenomeno di
 concentrazione dei terreni agricoli e degli allevamenti in un numero 
sensibilmente ridotto di aziende […] dove la principale dinamica 
strutturale è stata quella della ricomposizione fondiaria. […] Le 
trasformazioni intervenute nel corso degli anni nel settore primario 
hanno comunque avuto un impatto sulla composizione e sull’intensità del 
lavoro agricolo. Alla riduzione del numero di aziende e della superficie
 agricola utilizzata, oltre che ai cambiamenti organizzativi intervenuti
 (si pensi ad esempio all’incremento e miglioramento della 
meccanizzazione), è seguita una minor esigenza di impiego di lavoro. 
(sottolineatura nostra). La diminuzione complessiva delle giornate di 
lavoro impiegate in agricoltura ha riguardato tuttavia prevalentemente 
la componente lavorativa familiare, mentre quella non familiare, e in 
particolare quella saltuaria, è aumentata. Quindi alle aumentate 
dimensioni aziendali è corrisposto un minor contributo della famiglia 
alla manodopera agricola e un maggior ricorso a manodopera 
extraziendale, in particolare quella avventizia di provenienza 
straniera”.
La maggiore produttività e il minor lavoro 
necessario grazie alla meccanizzazione non si spalma uniformemente ma, 
da una parte, crea la necessità per il capitale di un soccorso statale 
al reddito con misure di sostegno ai cittadini bisognosi e, dall’altra, 
crea forme di concentramento del lavoro su una residua parte della 
classe lavoratrice, anche migrante, che vede diminuire il salario e 
aumentare o intensificare le ore di lavoro.
Il report di ActionAid sulla situazione dell’agricoltura nell’Arco ionico si focalizza sulla condizione femminile e migrante. “Nello
 specifico, le operaie agricole sono 22.702, 16.801 italiane e 5.901 
straniere, di cui il 76% è costituito da comunitarie, soprattutto rumene
 e bulgare, con una netta prevalenza delle prime sulle seconde. Nel 
periodo 2012-2018, le lavoratrici rumene costituivano il 15% della forza
 lavoro femminile, mentre le lavoratrici bulgare il 2,7%, percentuali 
che nel 2020 hanno registrato una significativa contrazione, 
rispettivamente del 25% e del 42%, ulteriormente aumentata a seguito 
dello scoppio della pandemia. Tale trend è interpretato non tanto come 
una fuoriuscita dal mercato del lavoro tout court, ma come uno 
scivolamento in situazioni di irregolarità lavorativa di difficile 
misurazione. Spinte dalle difficoltà economiche e dalle scarse 
opportunità lavorative, le donne rumene e bulgare arrivano generalmente 
nell’Arco ionico direttamente dal Paese di origine, senza conoscere la 
lingua e con scarse informazioni. Trovano subito un impiego grazie 
all’intermediazione di un/a conoscente o di un/a familiare già 
impiegato/a in agricoltura nell’area. A volte sono gli stessi caporali 
che operano in Puglia a reclutare le donne andando personalmente nelle 
zone agricole della Romania. […] La loro giornata lavorativa inizia tra 
le 4.00 e le 4.30 del mattino. Per raggiungere il posto di lavoro 
utilizzano la corriera o macchine spesso gestite dagli stessi caporali. 
Circa la metà delle 119 donne incontrate ha dichiarato di lavorare in 
più aziende contemporaneamente, nonostante le difficoltà di spostamento 
tra i diversi luoghi di lavoro” e di avere condizioni lavorative al 
limite della sopportazione umana, senza servizi igienici, pause, presidi
 di sicurezza e altre tutele. “Hanno in sostanza rilevato la loro 
subalternità agli occhi di caporali e datori di lavoro che le 
considerano numeri perché, come una lavoratrice ha sottolineato, «non 
siamo donne, siamo le cassette che riempiamo»” 
Inutile dire che i 
turni di lavoro e le precarie condizioni di vita non permettono, per le 
donne ancora di più che per gli uomini, forme di organizzazione 
collettiva per rivendicare migliori condizioni di lavoro.
Le 
braccianti spesso lavorano in più aziende, distanti tra loro anche 
centinaia di chilometri. Questo dato estende considerevolmente l’orario 
di lavoro. La condizione è aggravata dalla difficoltà ad accedere ai 
servizi pubblici sia a causa della mancanza di tempo libero sia per 
problemi linguistici. La condizione femminile si aggrava ancora di più 
in presenza di minori da accudire... sopperiscono alla mancanza di asili
 o comunque di servizi pubblici, grazie all’aiuto di madri, suocere o 
altre parenti. Alcune volte sono costrette a organizzarsi 
differentemente creando privatamente in alcune case piccoli asili 
irregolari gestiti a pagamento da connazionali. In casi estremi “c’è poi
 chi, in mancanza di alternative, in alcune giornate si ritrova 
costretta a portare con sé le figlie o i figli sul posto di lavoro”. 
Per le braccianti, accanto alle difficoltà lavorative, compaiono spesso le molestie sessuali da parte degli sfruttatori.
 Le donne che si oppongono ai tentativi di abuso hanno successivamente 
maggiori difficoltà a trovare lavoro anche presso altre aziende. “Mi è 
capitato tantissime volte e me ne sono sempre andata. All’inizio 
sembrano cortesi, dicono frasi che possono sembrare dei complimenti, 
come se non ci fosse niente di male. Però, poi, una parola tira l’altra e
 si arriva sempre a quello. Ormai me ne accorgo subito. Allora saluto 
con educazione e me ne vado via. A volte insistono, anche 
telefonicamente. Mi chiamano e chiedono: «Ma non vuoi accettare il 
lavoro?». Sono uomini italiani quelli che fanno così. Sanno che siamo 
straniere e siamo in forte difficoltà economica. Pensano che io sia una 
poverina buttata lì, una morta di fame e che il bisogno mi spinga a fare
 altro”.
I dati sulla Calabria nel Report del Crea. In linea 
con i dati nazionali, anche in Calabria il numero di aziende negli 
ultimi dieci anni è diminuito del 28% mentre è aumentata del 4% la 
superficie totale lavorata. Meno soggetti, maggiore produzione. Un peso 
rilevante in termini produttivi è rappresentato dalle coltivazioni 
arboree con il 41% della SAU complessiva regionale e con un incidenza di
 manodopera (soprattutto nella fase della raccolta) elevata. 
“All’interno delle legnose ben 172.210 ettari sono rappresentati 
dall’olivo (73% della SAU investita a colture arboree), presente 
nell’83% delle aziende calabresi”.In effetti il 57% della produzione ai 
prezzi di base dell’agricoltura calabrese “è composta da soli 3 
prodotti: quelli olivicoli (19%), quelli agrumicoli (10%), patate e 
ortaggi (27%)” 
Proprio in questi ambiti, nella raccolta di olive ma 
soprattutto in quella d’agrumi fra le piane di Sibari e Gioia Tauro, si 
registrano il maggior impiego di manodopera e la gran parte dei casi di 
sfruttamento di lavoratori migranti. Secondo i dati della Banca d’Italia
 del 2019, in Calabria il settore agricolo assume un peso rilevante in 
quanto “rappresenta circa il 6 per cento del valore aggiunto, oltre il 
doppio del corrispondente dato nazionale. In esso trova impiego circa il
 15 per cento degli occupati, l’incidenza più alta tra le regioni 
italiane” (Banca d’Italia, L’economia della Calabria, n. 18, giugno 
2019).
“Negli ultimi 40 anni in Calabria la popolazione straniera
 è cresciuta enormemente. Si passa dai 2,5 mila nel 1981 agli oltre 100 
mila del 2019 che rappresentano il 5,5% della popolazione calabrese. La 
popolazione straniera più numerosa è quella dei romeni con il 31,8%, 
seguita da quella del Marocco (13,8%) e dai bulgari (6,1%). Nel 2019 è 
la provincia di Cosenza (35.559 unità) seguita da quella di Reggio 
Calabria (32.870) ad avere il maggior numero di stranieri soggiornanti. 
Seguono nell’ordine le province di Catanzaro (19.140), Crotone (12.789) e
 Vibo Valentia (8.136). […] Negli ultimi anni la presenza di lavoratori 
stranieri nell’agricoltura regionale si è sostanzialmente stabilizzata e
 si aggira intorno alle 30mila unità in larga parte comunitarie 
(70%).Sono il settore agrumicolo nella Piana di Rosarno e di Sibari, 
seguito da quello orticolo (cipolle lungo la costa tirrenica da Vibo a 
Cosenza, finocchi nel Crotonese) i comparti che richiedono il maggiore 
impiego di manodopera straniera”
“La presenza di questa 
manodopera a basso costo e flessibile permette agli agricoltori di 
tenere il costo del lavoro all’interno dei limiti dettati dai bassi 
margini di profitto. Molti agricoltori si ritengono “costretti” ad 
abbassare il costo del lavoro perché soffocati dalla grande 
distribuzione organizzata e dalle imprese di trasformazione (degli 
agrumi) che pagano la materia prima al di sotto di un prezzo equo (le 
arance per la trasformazione vengono pagate soltanto 3 centesimi al 
chilogrammo)” (ivi, p. 183).
In realtà, quello che avviene è soltanto
 un ripresentarsi ciclico dei meccanismi di produzione e riproduzione 
del capitale lungo tutta la filiera del valore. Nessuna “costrizione”, 
dunque. Ma è, quasi sempre, un’accettazione sic et simpliciter del 
modello di produzione imposto.
...la valorizzazione del capitale 
passa attraverso l’automazione in tutti i campi dell’economia, 
generando, oltre che un minore impiego di forza lavoro, un aumento delle
 ore lavorate per quei “pochi” lavoratori che subiscono anche un 
peggioramento delle condizioni di base. L’ampliamento, nel settore 
agricolo, delle dimensioni aziendale, attraverso processi di 
accorpamento e spossessamento forzato, produce una concentrazione di 
capitale – una sorta di “americanizzazione” del comparto – che condurrà 
inevitabilmente ad un mercato monopolizzato da pochissimi gruppi 
societari.
Se pensiamo che già in alcune grandi città Amazon si 
occupa di recapitare a casa anche la cassetta di ortofrutta, abbiamo un 
quadro di quello che sarà il prossimo sviluppo del comparto agricolo in 
Italia e nel mondo. Molto probabilmente anche l’italianissima idea dei 
Gruppi di Acquisto Solidali (GAS) verrà sussunta e integrata (come già 
avvenuto per il cosiddetto “commercio equo e solidale”) nelle grandi 
piattaforme della logistica: avremo grandissimi magazzini colmi di 
alimenti organici e biologici pronti per essere consegnati a prezzi 
concorrenziali attraverso team di riders.
La redazione di Malanova 
 

 
 
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