VALLE DELLA GOMMA: IL LAVORO DELLE DONNE VALE 150 EURO AL MESE
inchiesta di Antonello Mangano e Stefania Prandi (*)
Dettaglio di scarti di sbavatura a domicilio. © Stefania Prandi
«Per la sbavatura, per staccare la guarnizione dallo stampo, bisogna
essere veloci. Andavo a farmi dare le scatole dal nostro vicino, ma poi
mio marito non ha più voluto. C’era il rischio che i bambini ingoiassero
i pezzetti. E i mucchi degli scarti in casa, in mezzo al salotto,
facevano un odore terribile. Ho dovuto smettere. Ho anche avuto problemi
di salute, mi si infiammava la gola, sono andata dal medico, ho preso
delle medicine». N. sospira, versando il tè alla menta e apparecchiando
la tavola con arachidi e datteri. Ha 26 anni, 3 figli piccoli e un
quarto in arrivo. Viene dal Marocco, come il marito K., che dice: «Non
voglio più la gomma in casa. Abbiamo fatto quel lavoro quando eravamo
disperati. Con la crisi, avevo perso il posto in fabbrica e non trovavo
altro, per forza dovevamo fare la sbavatura. Lavoravamo tutta la
giornata e non arrivavamo nemmeno a 100 euro al mese. Mi davano 27mila
strappi per volta e mi dicevano: mi servono per domani pomeriggio.
Dovevamo stare svegli di notte per finirli».La grande sala, in uno dei
paesi del Distretto della gomma, tra Bergamo e Brescia, dove si
producono guarnizioni per le automobili, è scaldata con una stufa a
pellet. I bimbi di N. e K. (i nomi puntati sono necessari per la tutela
delle lavoratrici e i lavoratori incontrati. Per lo stesso motivo non
viene indicato il comune di residenza) giocano sul divano in stile
marocchino che occupa tre pareti. È molto difficile trovare qualcuno
disponibile a parlare, tra le lavoratrici e i lavoratori c’è paura.
Ufficialmente, nella «Rubber valley», come viene chiamata, ci sono oltre
200 aziende, un indotto di 4.500 lavoratori in regola e un fatturato
fino a 2 miliardi all’anno. L’export vale 430 milioni ed è diretto
prevalentemente in Germania, ma tra le destinazioni c’è anche la
Francia. Gli acquirenti delle guarnizioni sono multinazionali che tra i
committenti hanno le più grosse aziende di automobili. Il distretto è
nato negli anni Cinquanta, quando nelle stalle si sono cominciate a
produrre le prime guarnizioni con macchinari arrangiati. Con il
passare del tempo i capannoni si sono moltiplicati, ingranditi e la
produzione si è raffinata, entrando nel novero delle eccellenze
italiane. Il territorio è uscito quasi indenne anche dalla grande crisi
del 2007, restando tra i più ricchi d’Italia.
Una parte della produzione delle guarnizioni è svolta in fabbrica e
viene eseguita in maniera regolare e trasparente. Le fasi sono cinque:
la stampa del pezzo, la sbavatura (eliminazione degli sfridi), la
rettifica, i forni e infine la cernita. Quest’ultima fase riguarda lo
scarto, a occhio, dei pezzi difettosi. Sbavatura e cernita sono attività
che tipicamente le aziende esternalizzano, spesso nelle case, e che
rientrano, in parte, nell’irregolarità.
Lo schema della filiera. Al livello più alto troviamo case
automobilistiche tedesche, in mezzo aziende produttrici di gomma del
Sebino, in fondo il lavoro a domicilio dei migranti
Per il lavoro a domicilio sono impiegate soprattutto donne immigrate.
Non si sa esattamente quante siano perché mancano stime: nemmeno i
sindacati, interpellati, hanno un’idea precisa della situazione. Il
lavoro della sbavatura è considerato «femminile» perché si ritiene che
sia un’attività poco impegnativa che le casalinghe con figli e casa da
gestire riescono a fare «nel tempo perso». In Italia, come scrive Nadia
Toffanin in Fabbriche invisibili (Ombre Corte, 2016), il lavoro a
domicilio era «considerato marginale all’interno del sistema
manifatturiero» e invece «ha resistito al passaggio di tre rivoluzioni
industriali, adattandosi ai continui cambiamenti associati alla
divisione internazionale del lavoro». Pietro Allieri, segretario della
Filctem-Cgil di Bergamo, racconta: «Mia madre era vedova e noi eravamo
tre bambini piccoli. Ogni tanto lei andava a prendere delle lavorazioni
di plastica, le portava a casa e ci mettevamo al lavoro la sera. Nel
centro di Bergamo era diffusissimo, era un modo per arrotondare. Poi la
cosa ha preso ben altra piega. Oggi alcuni pezzi sono pieni di solventi,
rilasciano esalazioni. Le migranti lavorano in cucina, mentre fanno da
mangiare. Siamo in una condizione di miseria dal punto di vista umano e
culturale».
La manodopera locale è stata sostituita con quella immigrata, disposta a
lavorare in condizioni estreme con retribuzioni che vanno dai 100 ai
500 euro al mese per una media tra i 10mila e i 12mila pezzi da sbavare
al giorno. Il 13,5% della popolazione del Basso Sebino della Bergamasca è
di origine straniera, soprattutto senegalese, indiana, albanese, rumena
e marocchina. Una parte è confluita nel bacino delle operaie a
domicilio. «Tante mie amiche fanno questo lavoro ma guadagnano poco.
Qui, nella nostra via, sono almeno dieci» dice N., tenendo in braccio la
bimba più piccola, di 2 anni. Spiega che nessuna delle sue vicine vuole
parlare con i giornalisti per paura della reazione dei mariti e di
perdere il lavoro. «Ho lavorato per 4 anni con la gomma. Vengono con gli
scatoloni pieni di pezzi da sbavare alle 9, alle 12, alle 18 e alle 19.
Il furgone carico fa il giro per tutto il giorno. Ti danno un tempo e
poi passano a ritirare le guarnizioni. Tanti sacchetti, mamma mia».
Le lavoratrici, gli ambientalisti, i sindacalisti: tutti parlano dei
furgoncini bianchi senza marchio che rappresenterebbero una delle
evidenze del sistema del cottimo nella zona. La gomma viaggia dalle
aziende alle case e, di sera, torna indietro. All’inizio dello scorso
dicembre, fermi vicino a una rotonda nella strada da Adrara San Martino a
Villongo, in provincia di Bergamo, abbiamo contato decine di furgoni in
circa mezz’ora.
QUI IL VIDEO: www.terrelibere.org/wp-content/uploads/2020/02/furgoni.gif
Furgoni bianchi e senza marchio alla rotonda nella strada da Adrara San
Martino a Villongo, in provincia di Bergamo. ©Antonello Mangano
Sbavatura e cernita sono le due fasi che vengono esternalizzate, ma non
tutte le aziende portano il lavoro a domicilio. Fare la cernita – cioè
selezionare i pezzi buoni, scartando quelli imperfetti – in fabbrica,
per le lavoratrici, significa guadagnare più o meno 1000 euro al mese.
Da casa si prendono 800 euro, se va bene. Anche in questo caso vengono
scelte le donne, ma per un motivo diverso da quello della sbavatura:
sono considerate più precise e pazienti, per una mansione che deve
essere eseguita sotto una lampada speciale e che «consuma gli occhi».
«D’estate, fuori dalle case popolari oppure dalle villette si trovano
famiglie intere che sgranano la gomma e le guarnizioni. Il fenomeno, per
quanto oggi poco analizzato, è ancora presente, soprattutto legato al
lavoro nero» dicono gli attivisti di Legambiente e Progetto Ecosebino.
Ci sono anche segnalazioni dei condomini per l’odore che arriva da certi
appartamenti. Un parroco della zona, che ha chiesto di restare anonimo
per timore che i progetti che porta avanti vengano ostacolati dalle
amministrazioni locali, dice: «Chi lavora a casa è in buona parte senza
contratto, ma non posso dare un dato. Di certo c’è che se sparisse la
gomma questo territorio sarebbe in ginocchio, perché negli ultimi 30
anni si è popolato e strutturato grazie a quel comparto. Pagano così
poco sia per necessità sia per profitto. Nella filiera il tentativo è di
abbattere i costi per essere competitivi, ma c’è anche l’aspetto della
comodità: è conveniente avere qualcuno che accetti una cifra bassa in
nero».
M. lavora in fabbrica da 17 anni. Guadagna bene anche grazie ai turni di
notte. «Quando sento di meritare di più, chiedo l’aumento e lo ottengo.
A Villongo ci sono donne che fanno la sbavatura a casa, ne conosco
personalmente una che abita qua vicino. Per quella mansione danno
pochissimo, quasi niente, una può lavorare il mese intero e prendere sui
200-300 euro oppure anche 150 euro, dipende quanti pezzi fa. Quella
paga non va bene per nulla. Per le aziende mandare i pezzi nelle case
costa meno che in ditta ma la gente disoccupata accetta tutto. Il
sindacato? Sono là nel loro ufficio, se vuoi vai e li trovi, non è che
vengano da te».
Anche K. è senegalese, ma molto più giovane. La sua è una storia di
precariato, ma confida in una stabilizzazione. «Ho lavorato con
un’azienda che mi ha fatto 5 contratti a tempo indeterminato in 3 anni.
Adesso sono in uno dei posti più grandi della zona e credo mi terranno.
Per chi è interno le cose vanno bene e ci sono i tedeschi che vengono a
controllare con regolarità. In fabbrica mi trovo bene anche se, tra
colleghi e capi, c’è chi saluta soltanto i bianchi».
In uno dei paesi del versante bresciano, la casa di un’operaia a cottimo
è in cima a una salita ripida, in un ex fienile. Le pareti della
cucina-soggiorno sono coperte di muffa e la stanza da letto, nel
seminterrato, è stipata di letti e vestiti, ci dormono in cinque. Il
cattivo odore è così forte che dopo una ventina di minuti inizia a
brucia la gola e gli occhi lacrimano. P. deve accettare qualsiasi
lavoro. Ha 4 figli e il marito bloccato in Marocco, per 3 anni non può
rientrare. Se va bene con la sbavatura prende 300 euro al mese, a volte
100. Un italiano che le porta il lavoro a casa pretende metà del
compenso. Così, se sulla ricevuta c’è scritto 500 euro, lei deve
restituirne 250. Soltanto l’affitto del seminterrato le costa 200 euro. È
praticamente impossibile far quadrare i conti con i figli minorenni.
Vanno tutti a scuola tranne la più grande che ha dovuto abbandonare
perché non c’erano soldi per pagare il pullman che la portava avanti e
indietro.
F., amica e connazionale di P., che ha tradotto l’intervista dall’arabo,
dice: «È un lavoro che impegna tutto il giorno, solo se sei in fabbrica
riesci a farlo comodamente. Mio marito lo faceva da casa, per un
periodo, e il mio salotto diventava schifoso, puzzava di guarnizioni,
c’erano pezzetti di gomma ovunque. Prendeva 100-200 euro al mese. A un
certo punto ho detto basta. Io avevo un buon posto e preferivo che
tirassimo la cinghia. Spero che Dio non mi metta mai a fare le
guarnizioni perché è una cosa orrenda e ingiusta che ha toccato tutte
noi quando è arrivata la crisi».
Nella casa di P., una delle operaie a cottimo.
Dettaglio di scarti di sbavatura a domicilio.
P. deve accettare qualsiasi lavoro. Ha quattro figli e il marito bloccato in Marocco,
per 3 anni non può rientrare. Se va bene prende 300 euro al mese, a volte 100.
Le persone in condizioni estreme sono il target ideale del lavoro a
domicilio. Gualtiero Reccagni, della Cooperativa verso l’altro, vive a
contatto con loro: «Andiamo da circa 100 famiglie della zona a portare
aiuto, in genere stranieri in condizione di povertà. La metà di loro
lavora a casa con la gomma ma non riesce a uscire dall’indigenza”. In un
capannone della zona industriale di Capriolo, Reccagni raccoglie abiti
usati e organizza un mercatino dove li rivende a prezzo simbolico alle
migranti: «Se non comprassero questi vestiti per pochi centesimi come
farebbero?»
Una prova ulteriore della diffusione del lavoro a domicilio arriva dalle
operazioni della Guardia di finanza e dei carabinieri, che hanno
trovato lavoratrici e lavoratori in condizioni di grave sfruttamento.
Nel 2017 sono state scoperte 2 ditte, una di Sarnico e una di Adrara San
Martino, in provincia di Bergamo, che sfruttavano il lavoro nelle case.
Nel 2018 a Credaro, sempre nella Bergamasca, un giro di lavoro a
cottimo per 50 centesimi l’ora. Infine nel 2019, a Mornico al Serio
(Bg), una ditta gestita da rumeni accusata di caporalato. Ultimi pezzi
di una filiera che inizia molto più in alto ma che termina nelle
abitazioni dei migranti.
Confindustria Bergamo, su mandato dell’Associazione produttori di
guarnizioni del Sebino, e i sindacati Cgil, Cisl e Uil Bergamo hanno
firmato a 19 dicembre 2018 il Protocollo territoriale distretto delle
guarnizioni. Per le aziende produttrici è previsto il divieto di
subappalto, la filiera deve quindi fermarsi al primo incarico esterno.
Le stesse società committenti dovrebbero chiedere la delega per poter
verificare la loro regolarità contributiva, ma possono fare verifiche
anche a casa dei lavoratori esterni impiegati.
Secondo i sindacalisti della Cgil Pietro Alleri e Sara Nava però
«l’accordo non è partito, non abbiamo avuto nessun riscontro. Che
risulti a noi, dopo averlo definito, nessuno di loro lo ha messo in
pratica. E se non risulta a noi, vuol dire che non l’hanno applicato.
Avremmo dovuto esercitare anche un ruolo di verifica». Secondo la Cisl,
invece, l’accordo ha dato dei risultati.
L’Associazione produttori di guarnizioni del Sebino non ha risposto alla
nostra richiesta di commento.SULLO STESSO TEMA LEGGI ANCHE: Fumi nocivi
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Nota degli autori. La ricerca è stata completata a febbraio 2020. Alcuni
nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati
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