23/12/18

Di calze, violenza e dissenso. Su Perugia




di Maria Rosaria Marella
17 dicembre 2018

Nel 2014 a Perugia una mobilitazione femminista contesta la manifestazione delle “sentinelle in piedi” convocata per contrastare la cosiddetta ideologia gender. Alcune compagne saranno condannate per oltraggio nei confronti delle forze dell’ordine. Un appello per esprimere solidarietà a Roberta e Michela
Compro un paio di calze in un negozio di corso Vannucci a Perugia, un negozio di una nota catena nazionale. Mi danno una busta con sopra una campagna sociale promossa dalla polizia di stato. È bella, devo ammettere. Reca un volto di donna appena abbozzato con un’inequivocabile ombra, un livido, sullo zigomo. Accanto pezzi di frasi che scandiscono i momenti topici della violenza maschile e domestica contro le donne: se pretende sesso e amore quando tu non vuoi, se ti umilia, se minaccia la tua libertà anche economica, se ti fa del male fisico, se… Alla fine in rosso e in grande il cuore del messaggio: questo non è amore. Sono sorpresa. La violenza del patriarcato denunciata in una comunicazione della polizia di stato stampata su uno shopper. Curiosa combinazione di mondi che normalmente non si incontrano… Il mix è quanto meno inedito.
Ma è qualcos’altro, qualcosa di più forte e personale a colpirmi. È il contrasto col modo in cui questi stessi elementi si ricombinano in una vicenda consumatasi qualche tempo fa in quello stesso tratto di Corso Vannucci. È qui che in un pomeriggio del 2014 un gruppo di compagne si mobilita contro la violenza patriarcale evocata da una manifestazione delle sentinelle in piedi convocata per contrastare la c.d. ideologia gender. Alcune di loro saranno denunciate per manifestazione non autorizzata, disturbo alla quiete pubblica e oltraggio. L’epilogo giudiziario è la condanna di Roberta e Michela per oltraggio nei confronti delle forze dell’ordine a tre e due mesi di reclusione. Ecco che le cose tornano al loro posto. Al loro solito posto.
Si dirà che il diritto è diritto, che ha le sue ragioni, i suoi percorsi, le sue strettoie. Che la ricostruzione dei fatti – che Roberta e Michela fermamente contestano – ha portato un giudice ad emettere una sentenza che prescinde dai contenuti della loro protesta.
Non siamo così ingenue da non sapere che l’esercizio della discrezionalità di un giudice si iscrive in un contesto sociale definito e che sono molteplici i fattori che ne determinano l’espressione.
Non possiamo ignorare lo scenario in cui i fatti avvengono, lo stesso in cui viene venduto quello shopper. Il centro storico di Perugia, Corso Vannucci in particolare, è ormai un centro commerciale a cielo aperto. Come tale deve essere preservato come luogo sicuro e rassicurante per il cittadino consumatore. A qualcuno evidentemente le sentinelle in piedi – a dispetto del loro aspetto inquietante e del messaggio spaventoso che veicolano – sono apparse più rassicuranti e più adeguate ad un luogo di consumo delle militanti femministe e delle soggettività frocie che inscenano una pacifica contromanifestazione con pericolosi ombrellini rossi e lo scambio di qualche bacio in pubblico: presenza disgustosa e intollerabile il sabato pomeriggio, momento sacro dello shopping. La condanna di Roberta e Michela è dunque una lezione per tutte. Il centro di Perugia deve presentarsi al pubblico come luogo pacificato, protetto da ogni espressione di conflitto sociale. E ancora prima schermato dalla presenza di soggettività trasgressive, dalla loro stessa estetica, di per sé conflittuale e minacciosa.
La difesa degli spazi del consumo è dunque momento cruciale di un’idea di ordine pubblico e si salda con l’espulsione dal centro urbano della lotta contro il patriarcato, che è sempre più chiaramente lotta contro un ordine sociale e economico, quello dettato dal capitalismo. E che pretende di non rimanere confinata ad un’immagine stampata su una busta di Calzedonia.
Non possiamo certo sganciare la fragilità delle accuse, l’abnormità della condanna, dal clima di criminalizzazione che intende produrre rispetto alla libera espressione del dissenso. E poco importa che la sentenza possa spiegarsi come il maldestro tentativo di rimediare al solito “much ado for nothing”, all’ennesimo futile e ingiustificato dispiegamento dell’apparato repressivo dello stato nel cuore di una sin troppo tranquilla provincia italiana.  Non possiamo soprattutto ignorare che il dissenso che essa colpisce è quello che si esprime contro il tentativo di restaurare l’ordine patriarcale, con tutto il suo portato di violenza, attraverso l’affermazione di una idea eteronormativa e gerarchica di famiglia, nuovamente consegnata alla signoria della soggettività maschile e bianca, al predominio del maschio alfa che spazza via le soggettività diverse, alla riesumazione del marito breadwinner che recupera autorità e pieno controllo sulla ricchezza familiare in nome di una bigenitorialità che diventa strumento di violenza economica legalizzata (Pillon docet).
Non possiamo e non dobbiamo ignorarlo per la centralità che la mobilitazione femminista, lo stato di agitazione permanente che ha proclamato, hanno assunto nell’odierno scenario politico, nel nostro paese e nel mondo. Come bene mettono in chiaro le rivendicazioni del movimento femminista globale, la lotta contro il patriarcato è lotta per la libertà e migliori condizioni materiali di vita per tutte e tutti.
Per questo quanto è andato in scena nel centro di Perugia ci riguarda tutte/i. Per questo è importante gridare forte la nostra solidarietà a Roberta e Michela.

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