di Maria Rosaria Marella
17 dicembre 2018
Nel 2014 a Perugia una
mobilitazione femminista contesta la manifestazione delle “sentinelle in piedi”
convocata per contrastare la cosiddetta ideologia gender. Alcune compagne
saranno condannate per oltraggio nei confronti delle forze dell’ordine. Un
appello per esprimere solidarietà a Roberta e Michela
Compro un paio di calze in un
negozio di corso Vannucci a Perugia, un negozio di una nota catena nazionale.
Mi danno una busta con sopra una campagna sociale promossa dalla polizia di
stato. È bella, devo ammettere. Reca un volto di donna appena abbozzato con
un’inequivocabile ombra, un livido, sullo zigomo. Accanto pezzi di frasi che
scandiscono i momenti topici della violenza maschile e domestica contro le
donne: se pretende sesso e amore quando tu non vuoi, se ti umilia, se minaccia
la tua libertà anche economica, se ti fa del male fisico, se… Alla fine in
rosso e in grande il cuore del messaggio: questo non è amore. Sono sorpresa. La
violenza del patriarcato denunciata in una comunicazione della polizia di stato
stampata su uno shopper. Curiosa combinazione di mondi che normalmente non si
incontrano… Il mix è quanto meno inedito.
Ma è qualcos’altro, qualcosa di
più forte e personale a colpirmi. È il contrasto col modo in cui questi stessi
elementi si ricombinano in una vicenda consumatasi qualche tempo fa in quello
stesso tratto di Corso Vannucci. È qui che in un pomeriggio del 2014 un gruppo
di compagne si mobilita contro la violenza patriarcale evocata da una
manifestazione delle sentinelle in piedi convocata per contrastare la c.d.
ideologia gender. Alcune di loro saranno denunciate per manifestazione non
autorizzata, disturbo alla quiete pubblica e oltraggio. L’epilogo giudiziario è
la condanna di Roberta e Michela per oltraggio nei confronti delle forze
dell’ordine a tre e due mesi di reclusione. Ecco che le cose tornano al loro
posto. Al loro solito posto.
Si dirà che il diritto è
diritto, che ha le sue ragioni, i suoi percorsi, le sue strettoie. Che la
ricostruzione dei fatti – che Roberta e Michela fermamente contestano – ha
portato un giudice ad emettere una sentenza che prescinde dai contenuti della
loro protesta.
Non siamo così ingenue da non
sapere che l’esercizio della discrezionalità di un giudice si iscrive in un
contesto sociale definito e che sono molteplici i fattori che ne determinano
l’espressione.
Non possiamo ignorare lo
scenario in cui i fatti avvengono, lo stesso in cui viene venduto quello
shopper. Il centro storico di Perugia, Corso Vannucci in particolare, è ormai
un centro commerciale a cielo aperto. Come tale deve essere preservato come
luogo sicuro e rassicurante per il cittadino consumatore. A qualcuno
evidentemente le sentinelle in piedi – a dispetto del loro aspetto inquietante
e del messaggio spaventoso che veicolano – sono apparse più rassicuranti e più
adeguate ad un luogo di consumo delle militanti femministe e delle soggettività
frocie che inscenano una pacifica contromanifestazione con pericolosi
ombrellini rossi e lo scambio di qualche bacio in pubblico: presenza disgustosa
e intollerabile il sabato pomeriggio, momento sacro dello shopping. La condanna
di Roberta e Michela è dunque una lezione per tutte. Il centro di Perugia deve
presentarsi al pubblico come luogo pacificato, protetto da ogni
espressione di conflitto sociale. E ancora prima schermato dalla presenza di
soggettività trasgressive, dalla loro stessa estetica, di per sé conflittuale e
minacciosa.
La difesa degli spazi del
consumo è dunque momento cruciale di un’idea di ordine pubblico e si salda con
l’espulsione dal centro urbano della lotta contro il patriarcato, che è sempre
più chiaramente lotta contro un ordine sociale e economico, quello dettato dal
capitalismo. E che pretende di non rimanere confinata ad un’immagine stampata
su una busta di Calzedonia.
Non possiamo certo sganciare la
fragilità delle accuse, l’abnormità della condanna, dal clima di
criminalizzazione che intende produrre rispetto alla libera espressione del
dissenso. E poco importa che la sentenza possa spiegarsi come il maldestro tentativo
di rimediare al solito “much ado for nothing”, all’ennesimo futile e
ingiustificato dispiegamento dell’apparato repressivo dello stato nel cuore di
una sin troppo tranquilla provincia italiana. Non possiamo soprattutto
ignorare che il dissenso che essa colpisce è quello che si esprime contro il
tentativo di restaurare l’ordine patriarcale, con tutto il suo portato di
violenza, attraverso l’affermazione di una idea eteronormativa e gerarchica di
famiglia, nuovamente consegnata alla signoria della soggettività maschile e
bianca, al predominio del maschio alfa che spazza via le soggettività diverse,
alla riesumazione del marito breadwinner che recupera autorità
e pieno controllo sulla ricchezza familiare in nome di una bigenitorialità che
diventa strumento di violenza economica legalizzata (Pillon docet).
Non possiamo e non dobbiamo
ignorarlo per la centralità che la mobilitazione femminista, lo stato di
agitazione permanente che ha proclamato, hanno assunto nell’odierno scenario
politico, nel nostro paese e nel mondo. Come bene mettono in chiaro le
rivendicazioni del movimento femminista globale, la lotta contro il patriarcato
è lotta per la libertà e migliori condizioni materiali di vita per tutte e
tutti.
Per questo quanto è andato in
scena nel centro di Perugia ci riguarda tutte/i. Per questo è importante
gridare forte la nostra solidarietà a Roberta e Michela.
Nessun commento:
Posta un commento