"Mi chiamo Consiglia Terracciano, ho più di sessant’anni e una vita di 
lotte, in fabbrica, nella mobilitazione per gli alloggi popolari ad 
Acerra, nei disoccupati organizzati, non ho mai più guardato le mie 
scarpe in uno scontro, e sono comunista. Lo devo a mio padre. Sono la 
prima di sette figli, chi si spaccava la schiena era solo lui, 
calzolaio. Troppo spesso le cose non andavano bene, le fabbriche a 
Sant’Antimo e a Casalnuovo davano lavoro e lo toglievano, senza dare 
conto a nessuno. Lui faceva i doppi turni e tornava la sera stremato. In
 un basso ammezzato a via del Pendino, stretto, con poca luce, anche se
 sempre con il profumo di bucato, misto a quell’odore di sugo 
ribollito. Certe volte mi mancava l’aria, uscivo fuori e guardavo in 
alto, immaginando la vita degli altri attraverso le case, i balconi, le 
ringhiere in ferro battuto e le tapparelle sempre aperte. In una di 
queste ci abitava un avvocato, fascista, lo ricordo brutto e cupo, uno 
di quelli che quando lo incontri la pelle si rattrappisce. Quando 
arrivavano le elezioni era una guerra. Mio padre tappezzava la casa di 
manifesti rossi del Pci e lui sbuffava di rabbia, con lo sguardo 
obliquo. Una volta sua moglie bussò alla porta: «aTerracciano, potete 
togliere quei manifesti, quando mio marito li vede c’ sbatt”o core». 
Avevo dieci anni, sorpassai mia madre e mi aprii un varco a braccia 
larghe: «E allora ricit’nceli’ che nun s’affacciass”o balconi».
In 
casa avevamo una piccola radio, malandata, l’altoparlante distorceva i 
suoni, e io facevo lunghi respiri per non perdere una parola della 
tribuna politica, anche perché poi dovevo spiegare tutto a mio padre. E 
la domenica ripetere parola per parola nella sede del partito. Che 
emozione, mi mettevo in piedi su una sedia in quella stanza scura, senza
 pavimento e con un grammofono che alla fine delle riunioni suonava 
Bandiera Rossa. Erano frasi sui contadini e sugli operai, sulle 
disgrazie del nostro meridione, facevo la mia parte mentre i compagni 
si passavano l’unica copia de “l’Unità” disponibile. Poi tornavamo a 
casa, in silenzio e lui mi metteva una mano sulla spalla.
A sedici 
anni entrai nella fabbrica dei fratelli Amodio, calzificio e tessitura a
 spugna. Dovevo dare una mano in famiglia. La fabbrica era una 
situazione di “privilegio” e io ero gonfia di orgoglio. «La fabbrica è 
bella», ci dicevamo tra le amiche. Ma la fabbrica è peggio della strada,
 a sedici anni ti spezza le ossa, ti fa capire il mondo, il capitalismo e
 il padrone. Lì se pieghi la testa non la rialzi più. Noi ragazze 
lavoravamo peggio dei neri, eravamo in 350. I capetti avevano il 
cronometro, se ti sgranchivi le dita facendole scrocchiare, se ti 
stiravi la schiena, ti distraevi o parlavi con una compagna, ti facevano
 la multa. Di contratto neanche a parlarne. e a fine mese quei quattro 
spiccioli te li mettevano in mano. Per risparmiare non compravano 
nemmeno una busta. Decidemmo di scioperare, era la fine degli anni 
Sessanta. Mi misi a capo della protesta e al terzo giorno di serrata il 
padrone mandò il suo uomo: «Ti vuole fare il contratto, ma solo a te». 
Una risata forte e grassa partì dalla pancia e morì in gola. Gli misi un
 dito sul petto: «O tutta la maestranza o nessuna». Andarono da due 
operaie: «La Terracciano vuole bruciare la fabbrica, è questo quello che
 dovete dire». Mi licenziarono, il sindacato sbagliò apposta la causa, 
io finii in un’impresa di pulizie, le mie compagne ottennero il 
contratto.
Mio marito era Michele Castaldo, un uomo tutto di un 
pezzo, un lavoratore, ma negli anni Settanta se non “conoscevi” nessuno 
ti prendeva a faticare. Ad Acerra era il deserto e a Pomigliano la Fiat 
era come un’isola, dove tutti volevano sbarcare. Per gente come noi non 
c’era possibilità e facevamo la fame. Poi nel 1974 arrivò la 
Montefibre, la fabbrica di poliesteri, noi non avevamo una cultura 
ambientalista, nessuno l’aveva, non sapevamo che avrebbero avvelenato 
le nostre terre, gli uomini e le donne, il bestiame, che i tumori ci 
avrebbero poi decimati. Allora era un’opportunità, la sola. Michele 
insieme a Francesco Vicino e Pietro Basso, entrarono per la costruzione
 dello stabilimento. Erano sicuri che una volta ultimati i lavori 
avrebbero avuto il posto. Era una trappola, gli operai dovevano arrivare
 da Casoria. «Questa cosa non la possono fare», mi disse una sera 
mentre sparecchiavo, tirandomi per la mano e facendomi sedere di forza. 
Ebbi un sussulto, sapevo che era solo l’inizio. Il giorno dopo formarono
 il primo nucleo dei disoccupati organizzati di Acerra, dopo poco erano
 quasi quattrocento. Una lunga battaglia, ottennero la Cig e quindici 
anni di contributi Lsu. Da li iniziò a fischiare il vento, l’unione con 
quelli dei banchi nuovi, e la mia nuova militanza.
Nel ’76 lavoravo 
solo io, avevamo tre figli e nemmeno uno straccio di casa. Con la legge 
409 costruirono nel nostro paese i primi alloggi popolari. Dei tuguri, 
ma facevano comodo. Ci presentammo alle 4 del mattino, in fila per fare 
richiesta, avevo mia figlia in braccio quando vidi arrivare i dipendenti
 comunali con delle facce nero pece. Ci dissero che le 270 abitazioni 
erano già assegnate. Clienti dei clienti, servi dei servi. Scoppiò una 
rivolta e noi mogli decidemmo di prenderci quello che ci apparteneva. 
Occupammo. Al grido di «casa e lavoro, la lotta è una sola». La 
repressione fu durissima, arresti e denunce. Ma non cedemmo, eravamo 
donne, unite e senza paura di perdere. La spuntammo. Mio marito mi 
lasciò e arrivò la sconfitta del movimento operaio. Il terremoto, la 
miseria, sola con tre bambini e dopo quattro anni anche disoccupata. 
Avevo pulito cessi e scale per dieci anni. E il vento che fischia nelle 
orecchie e ti manda in tempesta il cuore. Una mattina mi guardai le 
mani, dure, spaccate, con venature nere. Chiamai i compagni e le 
compagne, «Riparto» dissi, «ci devono dare un lavoro e delle case per 
quelli che non le hanno». Polvere e protesta, per tutti gli anni 
Novanta. Tavoli, incontri, un mare di formazione inutile per la mia 
gente, soldi buttati, denunce e carcere. Se hai bisogno veramente la 
lotta riesce, se hai da mangiare la paura ti fotte. In venti anni è 
stato trovato un lavoro a 42 mila disoccupati e migliaia di alloggi 
popolari.
Mi mancava l’aria quel 3 luglio del 2003. Mi svegliai di 
soprassalto mi guardai allo specchio: ero stanca, e mi avevano appena 
confermato la mia malattia. Presi fiato e dissi a me stessa, a quella 
donna un po’ invecchiata e malandata, ma di cui potevo vedere la stessa 
fierezza di trent’anni prima: «Consiglia hai le scarpe rotte e pur devi 
andare». Mi vennero a prendere poco dopo per portarmi a Pozzuoli, nel 
carcere femminile. Durante una manifestazione qualcuno aveva perso la 
testa e incendiato un pullman. Per quelli là, per lo Stato io ero la 
mandante, alle cartelle cliniche non dettero nemmeno uno sguardo. «In 
cella, Consiglia, alla fine ci sono riusciti», mi dissi. Non sapevo se 
ridere o piangere. Ma fuori non mi avevano abbandonato, lo sapevo e 
uscii dopo una settimana. Era un avvertimento delle istituzioni, ma 
significava anche che stavamo andando dalla parte giusta. E infatti 
sono arrivati altri inserimenti al lavoro. Mi hanno anche condannato in 
primo grado a sei anni e mezzo per una autoriduzione e sto aspettando. 
Io non ho paura. E nemmeno la mia gente. Ci attende una nuova stagione 
per i posti della raccolta differenziata che non vogliono fare, per non
 dare lavoro. Vogliono solo bruciare la monnezza, guadagnare sulle 
spalle della povera gente.
Non so fino a quando mi alzerò sulle mie 
gambe e non voglio fare pietà a nessuno, ma non sarà per molto. Immagino
 il mio funerale, una banda di musicisti che intona l’Internazionale, 
un fiore e una bandiera rossa, una festa, i compagni di sempre, Acerra 
che mi saluta. Consiglia Terracciano ha dato e avuto tanto. Vorrei solo 
che quel vento nelle mie orecchie fischiasse più forte per tutti.

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