L’8 marzo è la Giornata internazionale della donna. Di fronte
all’aumento di femminicidi, violenze sessuali e cultura dello stupro,
abbiamo bisogno di affrontare la questione dell’auto-difesa delle
donne.Se alcune donne bianche celebrano la non-violenza delle donne nel
corso di manifestazioni contro Trump per poi posare insieme ad agenti di
polizia, quando la violenza della polizia si indirizza specificamente
verso le persone di colore, quando picchiatori nazisti sono accusati di
non essere diversi dai fascisti, quando femministe in condizioni di
relativa sicurezza accusano di militarismo le donne militanti che in
Medio Oriente affrontano la schiavitù sessuale sotto l’ISIS, occorre
problematizzare il concetto liberale di non-violenza, che non tiene
conto dei sistemi di potere che si intrecciano e dei meccanismi di
violenza strutturale. Aggrappandosi dogmaticamente a un pacifismo (o
“passiv-ismo”?) dal carattere classista e razziale, e demonizzando la
violenta rabbia anti-sistema, le femministe si escludono da un dibattito
indispensabile sulle forme alternative di auto-difesa, i cui obiettivo
ed estetica sono utili a una politica di liberazione. In un’era globale
segnata da femminicidio, violenza sessuale e cultura dello stupro, come
possiamo permetterci di non pensare all’auto-difesa delle donne?
Il femminismo ha svolto un ruolo importante nei movimenti contro la
guerra e ha raggiunto vittorie politiche nella costruzione della pace.
La critica femminista del militarismo come strumento patriarcale spiega
il rifiuto della partecipazione delle donne agli eserciti statali come
fattore di ’empowerment’. Ma la “coperta” del rifiuto della violenza
delle donne da parte delle femministe liberali, non importa per quale
motivo, non riesce a distinguere qualitativamente tra militarismo
statalista, colonialista, imperialista, interventista e necessaria
legittima difesa.
Il monopolio della violenza come caratteristica fondamentale dello
Stato protegge quest’ultimo dalle accuse di ingiustizia, mentre allo
stesso tempo criminalizza i tentativi primari delle persone di
proteggersi. A seconda delle strategie e politiche, gli attori non
statali sono etichettati come ‘disturbatori dell’ordine pubblico’ nella
migliore delle ipotesi, o ‘terroristi’ nel peggiore dei casi. La
tendenza a sostenere esempi come il Mahatma Gandhi o Martin Luther King
per perorare la causa della resistenza non violenta, spesso offusca i
fatti storici fino al punto di edulcorare gli elementi radicali e
talvolta violenti della legittima resistenza anti-coloniale o
anti-razzista.
Allo stesso tempo, la tradizionale associazione della violenza alla
mascolinità e la sistematica esclusione delle donne dalla politica,
dall’economia, dalla guerra e dalla pace, riproducono il patriarcato
attraverso una divisione sessuale dei ruoli nella sfera del potere. La
critica femminista della violenza si fonda su un ragionamento
caratterizzato da buone intenzioni, ma allo stesso tempo profondamente
essenzialista, di una morale basata sul genere, che può financo
riprodurre ritratti di donne come soggetti passivi, intrinsecamente
apolitici, e che necessitano di protezione. Tale riduzionismo di genere
non riesce a capire che l’inclinazione alla violenza non è inerente al
genere di per sé, ma é determinata da sistemi interconnessi di gerarchia
e di potere, come dimostra il caso delle donne bianche americane che
torturano uomini iracheni nella prigione di Abu Ghraib.
Le donne curde hanno una tradizione di resistenza; la loro filosofia
di auto-difesa va dai corpi guerriglieri autonomi delle donne allo
sviluppo di cooperative femminili autogestite. Negli ultimi anni, le
vittorie delle Unità di difesa delle donne (YPJ) in Rojava-Nord Siria e
delle guerrigliere delle YJA Star del Partito dei lavoratori del
Kurdistan (PKK) contro l’ISIS sono state fonte di ispirazione. Le donne
curde, insieme alle loro sorelle arabe e cristiano-siriache, hanno
liberato migliaia di chilometri quadrati dall’ISIS, dando vita a scene
di bellezza preziosa di donne che liberano donne. Inoltre allo stesso
tempo stanno costruendo le fondamenta di una rivoluzione della donna
all’interno della società. Tuttavia, alcune femministe occidentali hanno
messo in discussione la sua legittimità e l’hanno respinta bollandola
di militarismo o di cooptazione da parte dei gruppi politici. I racconti
dei media occidentali hanno ritratto questa lotta in un modo
de-politicizzato ed esotico, o facendo ipotesi generalizzate sulla
‘naturale’ avversione alla violenza delle donne. Se i racconti dei media
sono stati dominati da un sguardo maschile, è stato in parte dovuto al
rifiuto delle femministe di impegnarsi su questo rilevante argomento.
Non si può fare a meno di pensare che le donne militanti che assumono la
situazione nelle proprie mani mettono a rischio la capacità delle
femministe occidentali di parlare a nome delle donne in Medio Oriente,
rappresentate come vittime indifese, e che questa possa essere una delle
ragioni di tale ostilità.
La lotta delle donne curde ha sviluppato una filosofia di autodifesa
centrata sulla donna e si trova in un crocevia di analisi tra
colonialismo, razzismo, stato-nazione, capitalismo e patriarcato. La
Teoria della Rosa è parte del pensiero politico, non celebrativo e
liberazionista per le donne, del leader del PKK Abdullah Öcalan. Egli
suggerisce che, al fine di creare forme non-stataliste di auto-difesa,
non abbiamo bisogno che di guardare alla natura stessa. Ogni organismo
vivente, una rosa, un’ape, ha i suoi meccanismi di auto-difesa per
proteggere ed esprimere la sua esistenza – spine, pungiglioni, denti,
artigli, e così via – non per dominare, sfruttare o inutilmente
distruggere un’altra creatura, ma per preservare se stessa e soddisfare
le sue esigenze vitali. Tra gli esseri umani, interi sistemi di
sfruttamento e di dominio perpetuano la violenza al di là della
necessaria sopravvivenza fisica. Contro questo abuso di potere, la
legittima auto-difesa deve essere basata sulla giustizia sociale e
sull’etica comune, con particolare riguardo all’autonomia delle donne.
Se ci si libera dalle nozioni social-darwiniste di sopravvivenza e di
competizione che sotto la modernità capitalistica hanno raggiunto
dimensioni mortali, e ci si focalizza sulla reciproca influenza della
vita all’interno dei sistemi ecologici, possiamo imparare dal modo della
natura di difendersi e formulare una filosofia dell’auto-difesa. Al
fine di combattere il sistema, l’auto-difesa deve includere l’azione
diretta, la democrazia radicale partecipativa, e strutture sociali,
politiche ed economiche autogestite.
Accanto al confederalismo democratico guidato dal movimento di
liberazione curdo, è stato costruito un sistema confederalista
democratico autonomo delle donne, attraverso migliaia di comuni,
consigli, cooperative, accademie e unità di difesa in Kurdistan e oltre.
Attraverso la creazione di una comune autonoma di donne in un villaggio
rurale, l’identità, l’esistenza e la volontà dei suoi membri trovano la
loro espressione nella pratica e sfidano l’autorità dello Stato
patriarcale e capitalista. Inoltre, l’autonomia economica e l’economia
comunitaria fondate sulla solidarietà attraverso la costituzione di
cooperative, sono cruciali per l’auto-difesa della società in quanto
garantiscono l’auto-sostentamento attraverso il mutualismo e la
responsabilità condivisa, respingendo la dipendenza dagli Stati e dagli
uomini. La cura per l’acqua, le terre, le foreste, il patrimonio storico
e naturale, sono parti vitali dell’auto-difesa contro lo stato-nazione e
la distruzione ambientale orientata al profitto.
Difendere se stessi significa anche essere e conoscere se stessi. Ciò
implica il superamento della produzione di conoscenza razzista e
sessista che la modernità capitalistica sostiene, e che esclude gli
oppressi dalla storia. La coscienza politica costituisce una resistenza
all’assimilazione, all’alienazione dalla natura, e alle politiche
statali di genocidio. La risposta a una storiografia e a scienze sociali
positiviste, centrate sul maschio, colonialiste è dunque l’istituzione
dal basso di accademie delle donne che promuovano epistemologie
liberazioniste.
Una lotta senza etica non può proteggere la società. Agli occhi delle
donne curde combattenti, l’ISIS non può essere sconfitto unicamente con
le armi, ma da una rivoluzione sociale. Questo è il motivo per cui le
donne ezide, dopo aver sperimentato un traumatico genocidio sotto
l’ISIS, hanno formato per la prima volta nella loro storia un consiglio
autonomo di donne con lo slogan: ‘L’organizzazione delle donne ezide
sarà la risposta a tutti massacri’, accanto alle organizzazioni militari
delle donne. In Rojava, a fianco delle YPJ, persino le nonne imparano a
usare un AK47 e si alternano nella responsabilità di proteggere le loro
comunità all’interno delle Forze di Auto-Difesa (HPC), mentre migliaia
di centri, cooperative, comuni, e accademie di donne mirano a
smantellare il dominio maschile. Contro la guerra iper-maschilista dello
stato turco, le donne curde costituiscono una delle principali sfide al
regime dell’uomo solo al comando di Erdogan attraverso la loro
mobilitazione autonoma. Fondamentalmente, le donne appartenenti a
comunità diverse di loro si sono unite nel costruire alternative delle
donne al dominio maschile in tutte le sfere della vita. Un concetto di
auto-difesa alternativa che non riproduca il militarismo statalista deve
naturalmente essere anti-nazionalista.
Al contrario della violenza che mira a sottomettere l’”altro”,
l’auto-difesa è un impegno totale e di responsabilità di vita. Esistere
significa resistere. E per esistere in maniera significativa e libera,
si deve essere politicamente autonomi. Detto senza mezzi termini, con un
sistema internazionale di violenza sessuale e razziale legittimata da
Stati-nazione capitalisti, l’appello alla non-violenza è un lusso
riservato a coloro che occupano posizioni privilegiate di relativa
sicurezza, convinti di non poter mai finire in una situazione in cui la
violenza sarà necessaria per sopravvivere. Anche se teoricamente
sensato, il pacifismo non parla alla realtà delle masse di donne e
assume quindi un carattere piuttosto elitario da primo mondo.
Se le nostre pretese di giustizia sociale sono sincere, in un sistema
mondiale caratterizzato da forme intersecanti di violenza, dobbiamo
reagire.
di Dilar Dirik, L’articolo è stato originariamente pubblicato su Open Democracy
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