(Da Militant) Un contributo importantissimo e ancora attuale:
Dopo le dichiarazioni di alcuni torturatori che tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 80, per contrastare la lotta di classe, hanno sottoposto a brutali sevizie decine di militanti delle Brigate Rosse e di altre organizzazioni, la stampa ufficiale è stata costretta a riconoscere che in quegli anni lo stato democratico italiano aveva “istituito” la tortura, facendo sue le pratiche (sequestri di persona, finte fucilazioni, violenze e sevizie di ogni genere, waterboarding etc.) fino ad allora notoriamente utilizzate in America Latina.
In realtà che la tortura fosse praticata in maniera organizzata e scientifica (e non per iniziativa estemporanea di qualche squadretta operante in caserme o commissariati, come sempre è accaduto e accade a centinaia di proletari, immigrati, ecc.) era noto a tutti: era noto ai compagni/e innanzitutto, era noto nei quartieri proletari, ma era noto anche alla stampa ufficiale. Tuttavia, se qualche giornalista osava avanzare l’ipotesi che la tortura fosse una pratica istituzionalizzata ed imposta a livello politico e non più addebitabile a “singole mele marce” finiva a sua volta per essere minacciato ed incriminato.
La TORTURA non solo esisteva, ma era anche interesse dello Stato che si sapesse della sua esistenza e del fatto che fosse massicciamente praticata (ai militanti delle organizzazioni combattenti innanzitutto, ma anche a molti compagni sospettati di aver fornito apporti di qualsiasi genere a queste organizzazioni o di avere dei contatti con le stesse) per coglierne al massimo i frutti in termini di deterrenza e di intimidazione. Nel contempo, tuttavia, doveva essere negata per non incrinare l’immagine dello stato democratico e rispettoso dei diritti umani.
L’Italia, non era certo la dittatura di Videla, e tuttavia quanto accaduto negli anni ‘70 dimostra che quando la lotta di classe – e non solo – mette in discussione i poteri costituiti anche lo stato democratico svela il suo vero volto.
Che siano stati gli stessi torturatori (forti dell’impunità derivante dal decorso del tempo) a svelare i meccanismi politici che consentirono di praticare su larga scala la tortura ci deve comunque far riflettere sul livello di smemorizzazione costruito ed imposto attraverso una serie di misure repressive che hanno impedito nei fatti una ricostruzione, da un punto di vista di classe, dello scontro avvenuto negli anni ’70 in questo paese.
La legislazione speciale varata negli anni ‘70 non è stata affatto un coacervo improvvisato di norme tese solo a fronteggiare il c.d. “pericolo terrorista”, ma un vero progetto politico finalizzato a distruggere ed annientare un movimento rivoluzionario articolato in mille forme diverse che nel suo insieme metteva in discussione l’intero assetto economico e politico dello stato borghese.
Gli anni 70 non furono “anni di piombo”, ma anni di sconvolgimenti sociali, culturali, mentali che rompevano ogni ruolo istituzionalmente assegnato, all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, che costruivano dal basso e concretamente autorganizzazione, nuove forme di relazioni sociali, mettendo profondamente in discussione il marciume delle relazioni borghesi ed il sistema economico e di potere che le teneva in vita.
Proprio per distruggere e disarmare questo movimento di massa nel suo insieme lo stato mette in campo una strategia complessa ed articolata di cui la tortura, insieme alla legge sulla dissociazione, non rappresenta che la punta dell’iceberg.
In realtà è sul piano politico prima ancora che giudiziario che vengono costruiti gli affondi sul movimento antagonista e rivoluzionario di quel periodo storico.
L’avanzare della crisi a partire dal 1973 impone allo stato borghese la necessità di ridefinire tutti i suoi apparati e le forme di rappresentanza; il P.C.I ed i sindacati, abbandonata ogni velleità di trasformazione sociale e di difesa degli interessi di classe, svolgeranno fino in fondo il ruolo assegnatogli, quello di garantire la pace sociale alla borghesia imponendo la politica dei sacrifici e svolgendo il ruolo di gendarmi all’interno delle fabbriche, facendosi carico di spezzare la resistenza operaia ai processi di ristrutturazione in atto. L’attacco a tutte le forme di lotta autorganizzate diventa sistematico: viene negata la libertà di organizzazione, di propaganda, di sciopero, di stampa, di parola.
L’esigenza del controllo sociale porta alla militarizzazione delle città con blocchi stradali, perquisizioni a tappeto, divieti di manifestazioni autonome, chiusura di spazi autogestiti, aumento della disciplina e della selezione nelle scuole e in tutti i posti di lavoro con incriminazione di tutte le avanguardie di lotta.
La repressione agisce capillarmente attraverso “le istituzioni democratiche” schedando operai, tossicodipendenti, disoccupati, senza casa ed espellendo dai luoghi di lavoro ed in particolare dai consigli di fabbrica i delegati che non condannano esplicitamente ogni forma di lotta violenta.
Il progressivo aumento delle spese militari verrà in parte destinato all’ordine interno (modernizzazione di armi e mezzi tecnici di controllo, creazione di corpi speciali, ampliamento delle funzioni di polizia a corpi fino ad allora amministrativi, come i vigili urbani).
Vengono varate le leggi antiterrorismo che nei fatti significano perquisizioni senza mandato, fermo di polizia, interrogatori senza avvocato, carcerazioni preventive fino a 10 anni e 8 mesi, aumento di tutte le pene anche per reati minori (attraverso l’aggravante della finalità di terrorismo) militarizzazione delle aule dei processi con schedatura di tutti i partecipanti all’udienza, negazione del diritto di parola per gli imputati e addirittura arresti degli avvocati per impedire qualsiasi linea di difesa diversa da quella voluta e imposta dallo stato, cioè quella della dissociazione e del pentimento.
Le galere si riempiono di migliaia di compagni e avanguardie di lotta (operai, disoccupati, studenti) e sarà proprio nei confronti dei prigionieri e delle prigioniere che verranno sperimentate le pratiche più avanzate di controrivoluzione.
L’apertura delle carceri speciali (1977) con l’attribuzione di poteri speciali al generale Dalla Chiesa, la sistematica applicazione del trattamento differenziato nell’intero circuito carcerario con l’applicazione dell’art. 90 ai prigionieri cosiddetti irriducibili (dal 1980 al 1986), l’introduzione di nuovi reati come l’art. 270 bis (associazione con finalità di terrorismo), 280 c.p. (attentato per finalità terroristiche e di eversione), gli aumenti di pena per tutti i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, Legge Cossiga), la tortura, come strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata dal 1978 al 1983), la conseguente legge sui pentiti (1982) e infine la legge sulla dissociazione rappresentano l’ampio ventaglio di strumenti repressivi utilizzati per distruggere le organizzazioni rivoluzionarie degli anni ‘70 e ‘80, ma che furono abbondantemente utilizzati anche per reprimere i movimenti di massa.
La dissociazione in particolare (su cui bisognerebbe aprire un capitolo a sé ed il cui concetto giuridico fu introdotto in un arco di tempo abbastanza lungo, dal 1978 al 1987 ) da strumento di ricatto e premialità rivolta ai singoli prigionieri, finirà per permeare il modo stesso di fare politica stabilendo rigidi confini al dissenso.
Che la legislazione di emergenza non abbia rappresentato una deroga provvisoria allo stato di diritto, circoscritta ad un determinato periodo storico, lo dimostrano gli sviluppi degli anni successivi e dell’oggi.
Ogni qualvolta lo stato democratico si misura con le espressioni più avanzate del conflitto sociale utilizza gli strumenti repressivi forgiati proprio negli anni 70-80: la tortura quando è necessario (vedasi la macelleria messicana di Diaz e Bolzaneto) e a seguire, sempre e comunque, la politica della dissociazione, ossia la pretesa di una presa di distanza dalle forme più radicali di lotta (vedasi la criminalizzazione di ogni dichiarazione di solidarietà con la lotta NO-TAV).
Insomma la democrazia borghese non smantella assolutamente nulla: né l’insieme delle “leggi speciali” né le norme penali di chiara matrice fascista del codice Rocco. Le une e le altre risultano infatti funzionali e assolutamente adattabili alle necessità repressive e preventive che si pongono nei vari momenti storici.
Basta volgere lo sguardo all’oggi! Analizzando l’elevatissimo numero di denunce e di condanne che hanno interessato diverse centinaia di compagni (decine di procedimenti per reati associativi, imputazioni e condanne per i reati di devastazione e saccheggio con pene fino a 15 anni, migliaia di denunce per reati minori che però in concreto si tramutano anch’essi in anni di galera) si potrebbe pensare di vivere anni di conflitto sociale non dissimili dagli anni ’70.
Anche la gestione dell’ordine pubblico nelle ultime manifestazioni di piazza e nelle contestazioni contro le nocività e le devastazioni ambientali ricorda il livello di repressione di quegli anni: largo uso dei reparti antisommossa e dei militari provenienti dai corpi speciali delle missioni all’estero, cariche selvagge ed accanimento brutale soprattutto nei confronti dei più giovani, di figure istituzionali (sindaci in Val di Susa, Campania, Terni) e dei soggetti meno politicizzati. Lo stesso uso di contestazioni quali quelle di devastazione e saccheggio appare funzionalmente teso a isolare e depoliticizzare ogni iniziativa di resistenza e di lotta veicolando nell’immaginario collettivo l’idea che si tratti di meri atti di vandalismo.
Insomma lo stato attraverso i suoi apparati giuridico-militari, mettendo in campo una forza assolutamente sproporzionata rispetto al livello del conflitto, agisce in maniera preventiva al fine di impedire che lotte settoriali e di resistenza sfocino in un conflitto generalizzato e di critica all’intero sistema capitalistico.
E’ già evidente a questo punto come lo stato non ha mai avuto alcuna intenzione di dismettere le misure repressive varate dal ‘77 all’82 che anzi, negli anni a venire, saranno riutilizzate e calibrate sia per affrontare in modo autoritario le nuove emergenze che per arginare il dissenso dentro steccati di compatibilità.
Solo l’art. 90, applicato a partire dal 1980 a centinaia di prigionieri rivoluzionari, fu abrogato, ma si introdusse contestualmente ( con la Legge Gozzini, 1986) l’art. 41 bis.
Insomma cambiava il nome del contenitore, ma non il contenuto! Entrambi gli articoli disponevano infatti che “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di grazia e giustizia, ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti.”
Nel 1992 all’art. 41 bis, già introdotto nel 1986, fu aggiunto un secondo comma che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose.
Subito dopo decine di detenuti accusati di appartenere alla camorra, alla ‘ndrangheta, alla mafia, fino ad allora detenuti nei circuiti di massima sicurezza vennero deportati a Pianosa e sottoposti ad angherie e sevizie di ogni genere.
Tutta l’operazione richiamava alla mente la deportazione dei prigionieri rivoluzionari nel campo dell’Asinara ed i massacri e le vessazioni a cui furono sottoposti per anni dal famigerato direttore Cardullo e dalle sue squadrette.
Nel 2002, a seguito degli attentati a Biagi e D’Antona, veniva estesa l’applicabilità del regime del 41-bis, ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione”.
Infine nel 2009 l’art. 41 bis, secondo comma è stato definitivamente istituzionalizzato entrando a far parte dell’ordinamento penitenziario. La prima applicazione è prevista per 4 anni, con successive e infinite proroghe di due anni.
Con la versione definitiva sono stati introdotti limiti anche alle visite degli avvocati, è stato sottratto il controllo giurisdizionale al giudice naturale precostituito per legge (il magistrato di sorveglianza competente alla vigilanza sul singolo istituto penitenziario) stabilendo che sul reclamo avverso il decreto applicativo del 41 bis è sempre competente il Tribunale di Sorveglianza di Roma.
L’istituzione di tale tribunale speciale richiama alla memoria ancora una volta quanto accaduto negli anni ‘70, quando si stabilì che doveva essere la Corte di Assise di Torino a processare tutti gli imputati per reati di sovversione.
Il regime del 41 bis è attualmente applicato a circa 700 detenuti, tra cui sei donne.
Dal 2005 viene applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi detenuto a Terni.
L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a se stessa Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del 2009.
La finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, ma è evidente che la vera funzione è quella dell’annientamento psicofisico dei prigionieri. Riguardo ai due prigionieri e alla prigioniera politica in 41 bis dal 2005 è ancora più evidente come la finalità delle condizioni di vita imposte sia finalizzato a distruggere la loro identità politica ed intellettuale e ad interrompere i legami non con una organizzazione che non esiste dal 2003, ma più in generale con quei settori di classe che ancora resistono e si oppongono allo stato di cose presenti. Negargli la possibilità di leggere, di scrivere, di tenersi informati su ciò che accade al mondo per questi prigionieri è una condanna a morte.
Tutte le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di tortura bianca, applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri rivoluzionari per perseguirne l’annientamento gli vengono applicate ormai da oltre otto anni.
Siamo di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di socialità (per Nadia Lioce e Marco Mezzasalma), impossibilità anche per Roberto Morandi di incontrare altri compagni, una sola ora d’aria al giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i prossimi congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla famiglia, limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella), controllo e blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi amici e parenti che con gli altri prigionieri rivoluzionari.
Questi prigionieri vivono una condizione completamente diversa da quella vissuta dai detenuti politici del ciclo di lotte degli anni ’70-80. In quasi undici anni di detenzione non hanno mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto discutere, confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di quotidianità insieme.
Tutte le forze politiche sono compatte nel ritenere necessaria questa forma di tortura legalizzata (e anche questo richiama l’unanimità con cui furono votate le cosiddette leggi antiterrorismo): il 41 bis è ormai un presidio della cosiddetta legalità da cui non si torna indietro. Ci sono solo due modi per uscire dal circuito del regime cosiddetto speciale: la morte (come è avvenuto per Diana) o la scelta di rinnegare la propria identità politica e collaborare con la giustizia.
Oggi, come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai finita degli anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici uno degli imperativi degli apparati di repressione e controllo è quello di impedire il flusso di comunicazioni e di scambi culturali, umani, politici e solidali con l’esterno e tra prigionieri per annichilire e distruggere questi ultimi, ma anche per impedire che si tessano fili che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e che la memoria storica venga anche per tale via ricostruita.
Non a caso anche ai circa 20 prigionieri detenuti da oltre 25 anni, molti addirittura da oltre 30 anni, nelle sezioni di alta sicurezza di Terni, Siano e Latina viene ancora censurata la posta ed impedito di avere contatti con chi non sia un familiare stretto.
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Le questioni accennate meritano indubbiamente maggiore approfondimento e necessità di confronto, credo però si possa intanto affermare che le misure repressive contro i movimenti di lotta, oggi come ieri, così come le condizioni imposte ai prigionieri rivoluzionari sono una scelta obbligata finalizzata a mantenere in vita un sistema di potere che nel divenire della crisi non può che accentuare la propria vocazione autoritaria e reazionaria.
Gli scenari di guerra che si intravedono all’orizzonte necessitano di una pace sociale che lo stato democratico dovrà garantire con ogni mezzo, anche con quelli più cruenti.
Quanto sta accadendo in medio-oriente deve farci riflettere su quale sarà il livello dello scontro, anche qui in Europa, negli anni a venire e su quanto oggi sia importante ogni iniziativa tesa a ricostruire la memoria della lotta di classe perché solo conoscendo il proprio passato si può tentare di orientare e determinare il futuro.
In realtà che la tortura fosse praticata in maniera organizzata e scientifica (e non per iniziativa estemporanea di qualche squadretta operante in caserme o commissariati, come sempre è accaduto e accade a centinaia di proletari, immigrati, ecc.) era noto a tutti: era noto ai compagni/e innanzitutto, era noto nei quartieri proletari, ma era noto anche alla stampa ufficiale. Tuttavia, se qualche giornalista osava avanzare l’ipotesi che la tortura fosse una pratica istituzionalizzata ed imposta a livello politico e non più addebitabile a “singole mele marce” finiva a sua volta per essere minacciato ed incriminato.
La TORTURA non solo esisteva, ma era anche interesse dello Stato che si sapesse della sua esistenza e del fatto che fosse massicciamente praticata (ai militanti delle organizzazioni combattenti innanzitutto, ma anche a molti compagni sospettati di aver fornito apporti di qualsiasi genere a queste organizzazioni o di avere dei contatti con le stesse) per coglierne al massimo i frutti in termini di deterrenza e di intimidazione. Nel contempo, tuttavia, doveva essere negata per non incrinare l’immagine dello stato democratico e rispettoso dei diritti umani.
L’Italia, non era certo la dittatura di Videla, e tuttavia quanto accaduto negli anni ‘70 dimostra che quando la lotta di classe – e non solo – mette in discussione i poteri costituiti anche lo stato democratico svela il suo vero volto.
Che siano stati gli stessi torturatori (forti dell’impunità derivante dal decorso del tempo) a svelare i meccanismi politici che consentirono di praticare su larga scala la tortura ci deve comunque far riflettere sul livello di smemorizzazione costruito ed imposto attraverso una serie di misure repressive che hanno impedito nei fatti una ricostruzione, da un punto di vista di classe, dello scontro avvenuto negli anni ’70 in questo paese.
La legislazione speciale varata negli anni ‘70 non è stata affatto un coacervo improvvisato di norme tese solo a fronteggiare il c.d. “pericolo terrorista”, ma un vero progetto politico finalizzato a distruggere ed annientare un movimento rivoluzionario articolato in mille forme diverse che nel suo insieme metteva in discussione l’intero assetto economico e politico dello stato borghese.
Gli anni 70 non furono “anni di piombo”, ma anni di sconvolgimenti sociali, culturali, mentali che rompevano ogni ruolo istituzionalmente assegnato, all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, che costruivano dal basso e concretamente autorganizzazione, nuove forme di relazioni sociali, mettendo profondamente in discussione il marciume delle relazioni borghesi ed il sistema economico e di potere che le teneva in vita.
Proprio per distruggere e disarmare questo movimento di massa nel suo insieme lo stato mette in campo una strategia complessa ed articolata di cui la tortura, insieme alla legge sulla dissociazione, non rappresenta che la punta dell’iceberg.
In realtà è sul piano politico prima ancora che giudiziario che vengono costruiti gli affondi sul movimento antagonista e rivoluzionario di quel periodo storico.
L’avanzare della crisi a partire dal 1973 impone allo stato borghese la necessità di ridefinire tutti i suoi apparati e le forme di rappresentanza; il P.C.I ed i sindacati, abbandonata ogni velleità di trasformazione sociale e di difesa degli interessi di classe, svolgeranno fino in fondo il ruolo assegnatogli, quello di garantire la pace sociale alla borghesia imponendo la politica dei sacrifici e svolgendo il ruolo di gendarmi all’interno delle fabbriche, facendosi carico di spezzare la resistenza operaia ai processi di ristrutturazione in atto. L’attacco a tutte le forme di lotta autorganizzate diventa sistematico: viene negata la libertà di organizzazione, di propaganda, di sciopero, di stampa, di parola.
L’esigenza del controllo sociale porta alla militarizzazione delle città con blocchi stradali, perquisizioni a tappeto, divieti di manifestazioni autonome, chiusura di spazi autogestiti, aumento della disciplina e della selezione nelle scuole e in tutti i posti di lavoro con incriminazione di tutte le avanguardie di lotta.
La repressione agisce capillarmente attraverso “le istituzioni democratiche” schedando operai, tossicodipendenti, disoccupati, senza casa ed espellendo dai luoghi di lavoro ed in particolare dai consigli di fabbrica i delegati che non condannano esplicitamente ogni forma di lotta violenta.
Il progressivo aumento delle spese militari verrà in parte destinato all’ordine interno (modernizzazione di armi e mezzi tecnici di controllo, creazione di corpi speciali, ampliamento delle funzioni di polizia a corpi fino ad allora amministrativi, come i vigili urbani).
Vengono varate le leggi antiterrorismo che nei fatti significano perquisizioni senza mandato, fermo di polizia, interrogatori senza avvocato, carcerazioni preventive fino a 10 anni e 8 mesi, aumento di tutte le pene anche per reati minori (attraverso l’aggravante della finalità di terrorismo) militarizzazione delle aule dei processi con schedatura di tutti i partecipanti all’udienza, negazione del diritto di parola per gli imputati e addirittura arresti degli avvocati per impedire qualsiasi linea di difesa diversa da quella voluta e imposta dallo stato, cioè quella della dissociazione e del pentimento.
Le galere si riempiono di migliaia di compagni e avanguardie di lotta (operai, disoccupati, studenti) e sarà proprio nei confronti dei prigionieri e delle prigioniere che verranno sperimentate le pratiche più avanzate di controrivoluzione.
L’apertura delle carceri speciali (1977) con l’attribuzione di poteri speciali al generale Dalla Chiesa, la sistematica applicazione del trattamento differenziato nell’intero circuito carcerario con l’applicazione dell’art. 90 ai prigionieri cosiddetti irriducibili (dal 1980 al 1986), l’introduzione di nuovi reati come l’art. 270 bis (associazione con finalità di terrorismo), 280 c.p. (attentato per finalità terroristiche e di eversione), gli aumenti di pena per tutti i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, Legge Cossiga), la tortura, come strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata dal 1978 al 1983), la conseguente legge sui pentiti (1982) e infine la legge sulla dissociazione rappresentano l’ampio ventaglio di strumenti repressivi utilizzati per distruggere le organizzazioni rivoluzionarie degli anni ‘70 e ‘80, ma che furono abbondantemente utilizzati anche per reprimere i movimenti di massa.
La dissociazione in particolare (su cui bisognerebbe aprire un capitolo a sé ed il cui concetto giuridico fu introdotto in un arco di tempo abbastanza lungo, dal 1978 al 1987 ) da strumento di ricatto e premialità rivolta ai singoli prigionieri, finirà per permeare il modo stesso di fare politica stabilendo rigidi confini al dissenso.
Che la legislazione di emergenza non abbia rappresentato una deroga provvisoria allo stato di diritto, circoscritta ad un determinato periodo storico, lo dimostrano gli sviluppi degli anni successivi e dell’oggi.
Ogni qualvolta lo stato democratico si misura con le espressioni più avanzate del conflitto sociale utilizza gli strumenti repressivi forgiati proprio negli anni 70-80: la tortura quando è necessario (vedasi la macelleria messicana di Diaz e Bolzaneto) e a seguire, sempre e comunque, la politica della dissociazione, ossia la pretesa di una presa di distanza dalle forme più radicali di lotta (vedasi la criminalizzazione di ogni dichiarazione di solidarietà con la lotta NO-TAV).
Insomma la democrazia borghese non smantella assolutamente nulla: né l’insieme delle “leggi speciali” né le norme penali di chiara matrice fascista del codice Rocco. Le une e le altre risultano infatti funzionali e assolutamente adattabili alle necessità repressive e preventive che si pongono nei vari momenti storici.
Basta volgere lo sguardo all’oggi! Analizzando l’elevatissimo numero di denunce e di condanne che hanno interessato diverse centinaia di compagni (decine di procedimenti per reati associativi, imputazioni e condanne per i reati di devastazione e saccheggio con pene fino a 15 anni, migliaia di denunce per reati minori che però in concreto si tramutano anch’essi in anni di galera) si potrebbe pensare di vivere anni di conflitto sociale non dissimili dagli anni ’70.
Anche la gestione dell’ordine pubblico nelle ultime manifestazioni di piazza e nelle contestazioni contro le nocività e le devastazioni ambientali ricorda il livello di repressione di quegli anni: largo uso dei reparti antisommossa e dei militari provenienti dai corpi speciali delle missioni all’estero, cariche selvagge ed accanimento brutale soprattutto nei confronti dei più giovani, di figure istituzionali (sindaci in Val di Susa, Campania, Terni) e dei soggetti meno politicizzati. Lo stesso uso di contestazioni quali quelle di devastazione e saccheggio appare funzionalmente teso a isolare e depoliticizzare ogni iniziativa di resistenza e di lotta veicolando nell’immaginario collettivo l’idea che si tratti di meri atti di vandalismo.
Insomma lo stato attraverso i suoi apparati giuridico-militari, mettendo in campo una forza assolutamente sproporzionata rispetto al livello del conflitto, agisce in maniera preventiva al fine di impedire che lotte settoriali e di resistenza sfocino in un conflitto generalizzato e di critica all’intero sistema capitalistico.
E’ già evidente a questo punto come lo stato non ha mai avuto alcuna intenzione di dismettere le misure repressive varate dal ‘77 all’82 che anzi, negli anni a venire, saranno riutilizzate e calibrate sia per affrontare in modo autoritario le nuove emergenze che per arginare il dissenso dentro steccati di compatibilità.
Solo l’art. 90, applicato a partire dal 1980 a centinaia di prigionieri rivoluzionari, fu abrogato, ma si introdusse contestualmente ( con la Legge Gozzini, 1986) l’art. 41 bis.
Insomma cambiava il nome del contenitore, ma non il contenuto! Entrambi gli articoli disponevano infatti che “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di grazia e giustizia, ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti.”
Nel 1992 all’art. 41 bis, già introdotto nel 1986, fu aggiunto un secondo comma che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose.
Subito dopo decine di detenuti accusati di appartenere alla camorra, alla ‘ndrangheta, alla mafia, fino ad allora detenuti nei circuiti di massima sicurezza vennero deportati a Pianosa e sottoposti ad angherie e sevizie di ogni genere.
Tutta l’operazione richiamava alla mente la deportazione dei prigionieri rivoluzionari nel campo dell’Asinara ed i massacri e le vessazioni a cui furono sottoposti per anni dal famigerato direttore Cardullo e dalle sue squadrette.
Nel 2002, a seguito degli attentati a Biagi e D’Antona, veniva estesa l’applicabilità del regime del 41-bis, ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione”.
Infine nel 2009 l’art. 41 bis, secondo comma è stato definitivamente istituzionalizzato entrando a far parte dell’ordinamento penitenziario. La prima applicazione è prevista per 4 anni, con successive e infinite proroghe di due anni.
Con la versione definitiva sono stati introdotti limiti anche alle visite degli avvocati, è stato sottratto il controllo giurisdizionale al giudice naturale precostituito per legge (il magistrato di sorveglianza competente alla vigilanza sul singolo istituto penitenziario) stabilendo che sul reclamo avverso il decreto applicativo del 41 bis è sempre competente il Tribunale di Sorveglianza di Roma.
L’istituzione di tale tribunale speciale richiama alla memoria ancora una volta quanto accaduto negli anni ‘70, quando si stabilì che doveva essere la Corte di Assise di Torino a processare tutti gli imputati per reati di sovversione.
Il regime del 41 bis è attualmente applicato a circa 700 detenuti, tra cui sei donne.
Dal 2005 viene applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi detenuto a Terni.
L’altra detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a se stessa Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del 2009.
La finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i rapporti con le organizzazioni di appartenenza, ma è evidente che la vera funzione è quella dell’annientamento psicofisico dei prigionieri. Riguardo ai due prigionieri e alla prigioniera politica in 41 bis dal 2005 è ancora più evidente come la finalità delle condizioni di vita imposte sia finalizzato a distruggere la loro identità politica ed intellettuale e ad interrompere i legami non con una organizzazione che non esiste dal 2003, ma più in generale con quei settori di classe che ancora resistono e si oppongono allo stato di cose presenti. Negargli la possibilità di leggere, di scrivere, di tenersi informati su ciò che accade al mondo per questi prigionieri è una condanna a morte.
Tutte le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di tortura bianca, applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri rivoluzionari per perseguirne l’annientamento gli vengono applicate ormai da oltre otto anni.
Siamo di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di socialità (per Nadia Lioce e Marco Mezzasalma), impossibilità anche per Roberto Morandi di incontrare altri compagni, una sola ora d’aria al giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i prossimi congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla famiglia, limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella), controllo e blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi amici e parenti che con gli altri prigionieri rivoluzionari.
Questi prigionieri vivono una condizione completamente diversa da quella vissuta dai detenuti politici del ciclo di lotte degli anni ’70-80. In quasi undici anni di detenzione non hanno mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto discutere, confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di quotidianità insieme.
Tutte le forze politiche sono compatte nel ritenere necessaria questa forma di tortura legalizzata (e anche questo richiama l’unanimità con cui furono votate le cosiddette leggi antiterrorismo): il 41 bis è ormai un presidio della cosiddetta legalità da cui non si torna indietro. Ci sono solo due modi per uscire dal circuito del regime cosiddetto speciale: la morte (come è avvenuto per Diana) o la scelta di rinnegare la propria identità politica e collaborare con la giustizia.
Oggi, come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai finita degli anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici uno degli imperativi degli apparati di repressione e controllo è quello di impedire il flusso di comunicazioni e di scambi culturali, umani, politici e solidali con l’esterno e tra prigionieri per annichilire e distruggere questi ultimi, ma anche per impedire che si tessano fili che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e che la memoria storica venga anche per tale via ricostruita.
Non a caso anche ai circa 20 prigionieri detenuti da oltre 25 anni, molti addirittura da oltre 30 anni, nelle sezioni di alta sicurezza di Terni, Siano e Latina viene ancora censurata la posta ed impedito di avere contatti con chi non sia un familiare stretto.
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Le questioni accennate meritano indubbiamente maggiore approfondimento e necessità di confronto, credo però si possa intanto affermare che le misure repressive contro i movimenti di lotta, oggi come ieri, così come le condizioni imposte ai prigionieri rivoluzionari sono una scelta obbligata finalizzata a mantenere in vita un sistema di potere che nel divenire della crisi non può che accentuare la propria vocazione autoritaria e reazionaria.
Gli scenari di guerra che si intravedono all’orizzonte necessitano di una pace sociale che lo stato democratico dovrà garantire con ogni mezzo, anche con quelli più cruenti.
Quanto sta accadendo in medio-oriente deve farci riflettere su quale sarà il livello dello scontro, anche qui in Europa, negli anni a venire e su quanto oggi sia importante ogni iniziativa tesa a ricostruire la memoria della lotta di classe perché solo conoscendo il proprio passato si può tentare di orientare e determinare il futuro.
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