"La stanchezza. La fatica, opprimente, amara, in certi momenti dolorosa al punto da far desiderare la morte.
Tutti in qualsiasi condizione, sanno cosa significa essere stanchi, ma per quella fatica ci vorrebbe un nome a parte”.
Tutti in qualsiasi condizione, sanno cosa significa essere stanchi, ma per quella fatica ci vorrebbe un nome a parte”.
Da "La vita e lo sciopero delle operaie metalmeccaniche", Simone Weil, 1936
Nel considerare quali sono le condizioni di stress psico-fisico nelle fabbriche metalmeccaniche, è utile rileggere i risultati dell'inchiesta che la Fiom produsse nel 2007, prima della crisi. Si è trattato di una inchiesta sulle condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici di dimensioni straordinarie. Non una semplice indagine campionaria, ma una vera e propria inchiesta di massa, condotta con la partecipazione di tutte le strutture regionali e territoriali della Fiom, che, attraverso le delegate e i delegati, raccolsero circa 100.000 questionari in oltre 4.000 imprese metalmeccaniche, su tutto il territorio nazionale e in tutti i comparti del settore, dalla siderurgia all’informatica. Fu, di fatto, la più grande inchiesta di massa mai realizzata in una categoria, cosa che, oltre ad avere un ritorno importate dal punto di vista della rappresentatività statistica, ha permesso a tante lavoratrici e lavoratori di parlare della loro quotidianità e di raccontare in prima persona - e in qualche modo persino di denunciare - le loro condizioni di vita e di lavoro.
Si trattò di una vera e propria fotografia del mondo del lavoro metalmeccanico. Nel dettaglio, le risposte provenivano da circa 70.000 operai e 30.000 tra impiegati, tecnici e coordinatori. Le donne erano 20.000, quasi 35.000 i lavoratori con meno di 35 anni, più di 10.000 i precari, oltre 3.000 i migranti. A ulteriore conferma della attendibilità dei dati, è bene ricordare che circa la metà di chi rispose al questionario erano lavoratrici e lavoratori non iscritti ad alcun sindacato.
I dati parlavano inequivocabilmente di una condizione di profondo malessere, non soltanto sulla questione più nota, quella del reddito, ma anche su tutti quegli elementi fortemente correlati al considdetto "rischio stress", come il tema degli orari e dell’organizzazione del lavoro, della salute e della sicurezza, dei rapporti all'interno dei posti di lavoro. Per questo, seppure sinteticamente, è utile richiamare quei dati in questa analisi e rileggerli oggi alla luce del tema che qui si affronta, quello della condizione di stress psico-fisico.
L'orario di lavoro
Un intervistato su quattro (26,3%) dichiarava di lavorare più di 40 ore a settimana, spesso con giornate di lavoro superiori alle 10 ore (15%). È un dato che va letto ricordando che i questionari furono compilati prima della crisi. Dal 2009 l'orario effettivo di lavoro è sicuramente diminuito. Ma certo è un dato che testimonia la scarsa possibilità di controllo del proprio tempo di lavoro. Per di più se si considera che la platea degli intervistati lavorava in fabbriche mediamente sindacalizzate, in cui il tema dell'organizzazione e dell’orario di lavoro erano perlopiù regolati da uno specifico accordo sindacale. Ben più alta doveva essere la percentuale di quanti lavoravano oltre le 40 ore nella miriade di piccole e piccolissime aziende dove non c'è il sindacato.
In ogni modo, ben il 48% - quasi un intervistato su due - evidentemente pensava di avere un orario di lavoro troppo lungo, visto che rispondeva che avrebbe preferito lavorare meno ore.
Turni e orari di lavoro faticosi interessavano soprattutto alcuni settori, in particolare quello dell'auto, dove il 73% degli operai rispondeva di svolgere più o meno regolarmente straordinari e turni. Non a caso, qui la percentuale di quanti avrebbero preferito lavorare meno aumentava al 60%.
Rispetto al lavoro notturno, interessava il 20% degli operai, con punte del 53% nel settore della siderurgia e oltre il 25% nella produzione di beni di massa. In alcuni stabilimenti, i turni notturni erano la regola per tutti, comprese le donne. Ad esempio alla Sata di Melfi, dove persino tra le operaie soltanto il 10% riusciva a risparmiarseli.
Il 25% degli operai diceva invece di lavorare a turni avvicendati (con percentuali oltre il 46% nelle aziende di medie dimensioni e ovviamente molto più spesso in alcuni settori come l'elettrodomestico e l'auto). Oltre il 50%, poi, dichiarava di lavorare di sabato, in particolare quelli più esposti a ricatti occupazionali e di reddito: fino al 71,5% tra i lavoratori migranti, e oltre il 60% tra i precari e i dipendenti di ditte in appalto.
Cambiamenti di orario nel corso del mese, con conseguente incertezza nella programmazione, riguardavano un quarto della platea degli intervistati, con percentuali più alte soprattutto nel settore della siderurgia.
A orari di lavoro per lo più lunghi si aggiungeva il peso degli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro, soprattutto nel Sud, dove un lavoratore su quattro (22%) rispondeva di impiegare più di un’ora per andare e tornare dal lavoro, altro fattore che incide direttamente sulla fatica e sullo stress (in alcuni stabilimenti questo dello spostamento casa-lavoro era e continua a essere una vera e propria piaga: tra gli operai di Melfi, oltre il 48% diceva di impiegare più di un'ora negli spostamenti). Le donne rispondevano di avere orari meno lunghi di lavoro, con meno straordinario, meno turni di sabato e molto raramente la notte. Ma poi facevano capire di recuperare tutto a casa, tra cura dei figli e lavoro domestico: risultava che quasi un'operaia su tre (31%) tra il lavoro vero e proprio e quello di cura della casa e dei figli lavorava oltre 60 ore a settimana. Dati peraltro ampiamente testimoniati da tutte le altre indagini sullo stesso tema. Non a caso, chiamammo il seminario che analizzava in dettaglio i dati relativi alle metalmeccaniche con il titolo evocativo di "Fatica e Libertà".
La ripetitività del lavoro
Tema ancora più legato al rischio stress è quello della ripetitività del lavoro. Dai dati dell'inchiesta emergeva una fotografia preoccupante da questo punto di vista. Per la maggior parte degli intervistati, a prescindere dal settore e dal tipo di azienda, il lavoro risultava essere ripetitivo (65%) e molto parcellizzato (atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (53%) e con ritmi di lavoro elevati (51%), dettati soprattutto da obiettivi di produzione, ma spesso anche dalla velocità di una macchina e dal controllo dei capi. I margini di autonomia reale - soprattutto per gli operai ma in parte anche per gli impiegati - risultavano essere molto ridotti, tanto che un operaio su quattro (24,4%) dichiarava di non poter fare una pausa quando ne sentiva il bisogno.
Tutte queste percentuali aumentavano significativamente in alcuni settori, primo tra tutti quello della produzione di beni di massa (elettrodomestico, auto, motociclo). Per avere un'idea, si consideri che nei soli stabilimenti Fiat oltre l'80% rispondeva di svolgere un lavoro ripetitivo e molto parcellizzato (con atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (73,8%) e con ritmi di lavoro elevati (64,5%). In quel contesto, ritmo e flusso di produzione erano già allora talmente poco controllabili che oltre il 40% degli operai diceva di non poter nemmeno fare una pausa per bisogni fisiologici. Altrettanto nel settore dell'elettrodomestico, dove tra le operaie (che rappresentavano quali la metà dei rispondenti) la percentuale di quante rispondevano di non poter fare una pausa al bisogno saliva a oltre il 50%.
Questo della condizione femminile era un tema trasversale a tutta l'inchiesta. Ovunque le condizioni peggiori riguardavano proprio le donne (sia operaie che impiegate), anche a causa dei bassi livelli di inquadramento. Dalle risposte delle donne, emergeva in tutti i settori una condizione di maggiore ripetitività, monotonia, parcellizzazione, con ritmi di lavoro più incessanti e margini di autonomia e di controllo della prestazione minori. Colpiva il fatto che nei settori più esposti, come appunto la produzione di massa, quasi senza eccezioni le operaie denunciavano di svolgere un lavoro che comporta atti e movimenti ripetitivi, anche di pochi secondi (93% delle operaie di 3° livello che lavoravano in imprese di produzione di massa).
Alle asprezze e alle monotonie del fordismo si aggiungevano poi le pretese e i rischi del postfordismo. La maggioranza degli intervistati - sia operai che impiegati, sia di alto che di basso livello - dichiarava infatti che il proprio lavoro, come abbiamo visto pur fortemente ripetitivo, comportava comunque il rispetto di procedure di qualità (87%), l’auto-valutazione della qualità (73,4%), la soluzione autonoma di problemi imprevisti (67,2%), l’apprendimento di nuove nozioni (64,5%). Era ipotizzabile che questi elementi non cambiassero nella sostanza i contenuti del lavoro, ma lo rendessero semmai più stressante. Cioè l’aggravio di fatica e di responsabilità del post-fordismo si sovrapponeva - e non si sostituiva – a una organizzazione de lavoro tradizionalmente taylorista.
Tema ancora più legato al rischio stress è quello della ripetitività del lavoro. Dai dati dell'inchiesta emergeva una fotografia preoccupante da questo punto di vista. Per la maggior parte degli intervistati, a prescindere dal settore e dal tipo di azienda, il lavoro risultava essere ripetitivo (65%) e molto parcellizzato (atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (53%) e con ritmi di lavoro elevati (51%), dettati soprattutto da obiettivi di produzione, ma spesso anche dalla velocità di una macchina e dal controllo dei capi. I margini di autonomia reale - soprattutto per gli operai ma in parte anche per gli impiegati - risultavano essere molto ridotti, tanto che un operaio su quattro (24,4%) dichiarava di non poter fare una pausa quando ne sentiva il bisogno.
Tutte queste percentuali aumentavano significativamente in alcuni settori, primo tra tutti quello della produzione di beni di massa (elettrodomestico, auto, motociclo). Per avere un'idea, si consideri che nei soli stabilimenti Fiat oltre l'80% rispondeva di svolgere un lavoro ripetitivo e molto parcellizzato (con atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (73,8%) e con ritmi di lavoro elevati (64,5%). In quel contesto, ritmo e flusso di produzione erano già allora talmente poco controllabili che oltre il 40% degli operai diceva di non poter nemmeno fare una pausa per bisogni fisiologici. Altrettanto nel settore dell'elettrodomestico, dove tra le operaie (che rappresentavano quali la metà dei rispondenti) la percentuale di quante rispondevano di non poter fare una pausa al bisogno saliva a oltre il 50%.
Questo della condizione femminile era un tema trasversale a tutta l'inchiesta. Ovunque le condizioni peggiori riguardavano proprio le donne (sia operaie che impiegate), anche a causa dei bassi livelli di inquadramento. Dalle risposte delle donne, emergeva in tutti i settori una condizione di maggiore ripetitività, monotonia, parcellizzazione, con ritmi di lavoro più incessanti e margini di autonomia e di controllo della prestazione minori. Colpiva il fatto che nei settori più esposti, come appunto la produzione di massa, quasi senza eccezioni le operaie denunciavano di svolgere un lavoro che comporta atti e movimenti ripetitivi, anche di pochi secondi (93% delle operaie di 3° livello che lavoravano in imprese di produzione di massa).
Alle asprezze e alle monotonie del fordismo si aggiungevano poi le pretese e i rischi del postfordismo. La maggioranza degli intervistati - sia operai che impiegati, sia di alto che di basso livello - dichiarava infatti che il proprio lavoro, come abbiamo visto pur fortemente ripetitivo, comportava comunque il rispetto di procedure di qualità (87%), l’auto-valutazione della qualità (73,4%), la soluzione autonoma di problemi imprevisti (67,2%), l’apprendimento di nuove nozioni (64,5%). Era ipotizzabile che questi elementi non cambiassero nella sostanza i contenuti del lavoro, ma lo rendessero semmai più stressante. Cioè l’aggravio di fatica e di responsabilità del post-fordismo si sovrapponeva - e non si sostituiva – a una organizzazione de lavoro tradizionalmente taylorista.
L'ambiente fisico:
I dati sull’ambiente fisico parlavano poi di condizioni di lavoro faticose, disagiate e rischiose: le operaie e gli operai dichiaravano, infatti, di essere largamente esposti a rumori molto forti (56,5%), vibrazioni (50,3%), vapori polveri e sostanze chimiche (43,3%), movimenti ripetitivi di mani e braccia (68%) e posizioni disagiate che provocano dolore (32%). Una parte consistente denunciava anche che nel proprio lavoro riteneva essere molto alto il rischio di farsi male (20%), fare male ad altri (12%) e contrarre malattie (17,3%).
I dati sull’ambiente fisico parlavano poi di condizioni di lavoro faticose, disagiate e rischiose: le operaie e gli operai dichiaravano, infatti, di essere largamente esposti a rumori molto forti (56,5%), vibrazioni (50,3%), vapori polveri e sostanze chimiche (43,3%), movimenti ripetitivi di mani e braccia (68%) e posizioni disagiate che provocano dolore (32%). Una parte consistente denunciava anche che nel proprio lavoro riteneva essere molto alto il rischio di farsi male (20%), fare male ad altri (12%) e contrarre malattie (17,3%).
I danni alla salute:
Così, anche dopo pochi anni di lavoro, circa la metà degli operai - e soprattutto le operaie - già pensava che la propria salute fosse stata compromessa a causa del lavoro (40%) e già riteneva che non ce la avrebbe fatta a svolgere lo stesso lavoro di oggi quando avesse raggiunto i 60 anni (60%). Si ricordi che le domande erano poste prima che la legge Fornero cancellasse di fatto le pensioni di anzianità e alzasse ancora l'eta pensionabile di vecchiaia, anche e soprattutto per le donne. I disturbi che venivano denunciati più spesso erano quelli muscolo-scheletrici (il 40,2% dichiarva dolori alla schiena; il 34,2% a spalle e collo; il 30,8% a braccia e mani; il 25% alle gambe). Il 23,5% aveva problemi di udito, il 27,8% denunciava tensione e stanchezza, ma anche irritabilità (21,5%), ansia (19%), insonnia (14,2%) e dolori allo stomaco (12%). Colpiva il dato clamoroso delle operaie dello stabilimento Fiat di Mirafiori: il 25% di loro - cioè una su quattro! - dichiarava di avere problemi di insonnia.
Così, anche dopo pochi anni di lavoro, circa la metà degli operai - e soprattutto le operaie - già pensava che la propria salute fosse stata compromessa a causa del lavoro (40%) e già riteneva che non ce la avrebbe fatta a svolgere lo stesso lavoro di oggi quando avesse raggiunto i 60 anni (60%). Si ricordi che le domande erano poste prima che la legge Fornero cancellasse di fatto le pensioni di anzianità e alzasse ancora l'eta pensionabile di vecchiaia, anche e soprattutto per le donne. I disturbi che venivano denunciati più spesso erano quelli muscolo-scheletrici (il 40,2% dichiarva dolori alla schiena; il 34,2% a spalle e collo; il 30,8% a braccia e mani; il 25% alle gambe). Il 23,5% aveva problemi di udito, il 27,8% denunciava tensione e stanchezza, ma anche irritabilità (21,5%), ansia (19%), insonnia (14,2%) e dolori allo stomaco (12%). Colpiva il dato clamoroso delle operaie dello stabilimento Fiat di Mirafiori: il 25% di loro - cioè una su quattro! - dichiarava di avere problemi di insonnia.
I rapporti sociali:
Anche i dati sui rapporti sociali dentro i luoghi di lavoro non erano migliori. In questo caso, le risposte testimoniavano un sistema di carattere tradizionale, dove, in particolare, gli uomini comandavano sempre sulle donne (i capi donna sonorano rarissimi) e dove le gerarchie si traducevano spesso in autoritarismo e discriminazioni, soprattutto al Sud e nelle grandi imprese (dove circa il 20% degli operai aveva subito intimidazioni), ma anche tra i più giovani e soprattutto - tra i migranti. Tra questi, una parte consistente rispondeva di aver ricevuto provvedimenti disciplinari (11,4%) e aver subito intimidazioni (20%), ma anche discriminazioni legate alla nazionalità (27,6%) e all’etnia o alla razza (21,7%).
Anche i dati sui rapporti sociali dentro i luoghi di lavoro non erano migliori. In questo caso, le risposte testimoniavano un sistema di carattere tradizionale, dove, in particolare, gli uomini comandavano sempre sulle donne (i capi donna sonorano rarissimi) e dove le gerarchie si traducevano spesso in autoritarismo e discriminazioni, soprattutto al Sud e nelle grandi imprese (dove circa il 20% degli operai aveva subito intimidazioni), ma anche tra i più giovani e soprattutto - tra i migranti. Tra questi, una parte consistente rispondeva di aver ricevuto provvedimenti disciplinari (11,4%) e aver subito intimidazioni (20%), ma anche discriminazioni legate alla nazionalità (27,6%) e all’etnia o alla razza (21,7%).
Insomma, l’inchiesta della Fiom nel 2007, prima della crisi, ricordava, a chi all'epoca fosse stato distratto, che gli operai esistevano eccome e soprattutto che lavoravano ancora secondo i principi di una organizzazione del lavoro tradizionalmente taylorista.
Da allora sono passati sei lunghi anni di crisi (vedi S/catenate, mfpr, 2013), in cui le condizioni di lavoro non hanno potuto che peggiorare, perchè è immaginabile che siano stati ancora meno gli investimenti delle aziende nell'innovazione e nella sicurezza, che sia aumentato per tutti il senso di incertezza e la ricattabilità, che non possano che essere peggiorati i rapporti all'interno dei posti di lavoro. Si trae da questo una sola possibile conclusione. Se già allora l'inchiesta restituiva una fotografia del mondo del lavoro metalmeccanico così fortemente esposto al "rischio stress" , impossibile pensare che oggi la situazione possa essere migliorata e che le aziende metalmeccaniche abbiano innovato a tal punto in organizzazione del lavoro, condizioni ambientali e sicurezza da eliminare o quasi il rischio stress per i loro dipendenti in questi sei anni di crisi. D'altra parte, confrontando i dati europei una condizione simile non esiste in nessun altro paese.
Basterebbe questo raffronto per dire che non è verosimile che soltanto in 8 aziende su 59 di quelle prese in considerazione per l'indagine sullo stress la valutazione abbia accertato un rischio alto o medio di stress. Peraltro, tra gli intervistati in questa ultima indagine, la percentuale di quanti lavorano a turni (circa 70%) e di notte (circa 50%) è incredibilmente alta, senz'altro maggiore di quella che emergeva dall'inchiesta di massa condotta nel 2007. Quindi, casomai - soltanto per citare due dei fattori che influiscono sullo stress - tra gli Rls che rispondono all'ultima indagine il rischio stress doveva risultare persino maggiore, di quello che complessivamente restituiva l'inchiesta del 2007.
Molto più probabile è che semplicemente la valutazione del rischio stress sia stata fatta in modo tale da non fare emergere le reali condizioni di lavoro. Guarda caso, i pochi episodi in cui la valutazione del rischio stress ha portato a individuare un rischio medio o alto, sono anche quelli - rarissimi! - in cui maggiore è stato il conivolgimento del Rls nella rilevazione. Non è un caso nemmeno che il 62% degli Rls che hanno svolto la valutazione del rischio stress si dica insoddisfatto dalla stessa.
Basterebbe questo raffronto per dire che non è verosimile che soltanto in 8 aziende su 59 di quelle prese in considerazione per l'indagine sullo stress la valutazione abbia accertato un rischio alto o medio di stress. Peraltro, tra gli intervistati in questa ultima indagine, la percentuale di quanti lavorano a turni (circa 70%) e di notte (circa 50%) è incredibilmente alta, senz'altro maggiore di quella che emergeva dall'inchiesta di massa condotta nel 2007. Quindi, casomai - soltanto per citare due dei fattori che influiscono sullo stress - tra gli Rls che rispondono all'ultima indagine il rischio stress doveva risultare persino maggiore, di quello che complessivamente restituiva l'inchiesta del 2007.
Molto più probabile è che semplicemente la valutazione del rischio stress sia stata fatta in modo tale da non fare emergere le reali condizioni di lavoro. Guarda caso, i pochi episodi in cui la valutazione del rischio stress ha portato a individuare un rischio medio o alto, sono anche quelli - rarissimi! - in cui maggiore è stato il conivolgimento del Rls nella rilevazione. Non è un caso nemmeno che il 62% degli Rls che hanno svolto la valutazione del rischio stress si dica insoddisfatto dalla stessa.
Se riproponessimo oggi le stesse domande del 2007 e lasciassimo come allora che a rispondere siano direttamente i lavoratori e le lavoratrici, in modo anonimo e senza condizionamento alcuno, non tramite mano del proprio Rspp o del proprio caporeparto o di chiunque nominato dall'azienda, dubito che ci troveremmo di fronti agli stessi incredibili (nel senso letterale di non credibili) esiti della valutazione ufficiale del rischio stress.
Eliana Como (Fiom nazionale)
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