Il libro dell'antropologa Paola Tabet è un viaggio tra le pratiche di sottomissione in diversi Stati: matrimoni a 10 anni, stupri di gruppi, taglio delle dita, tizzoni ardenti e privazioni. Tutto per rendere le mogli soggiogate e obbedienti
di Stefania Prandi
Ci sono bambine che vengono fatte sposare a 10 anni e che, dopo la prima notte di nozze con il marito trentenne, muoiono dissanguate. Altre subiscono stupri di gruppo perché si oppongono ad esercitare il loro “dovere di mogli”. Ce ne sono alcune a cui vengono tagliate 6 dita
in omaggio ai morti della comunità: gliene restano 4, per entrambe le
mani, non abbastanza per imparare a scrivere ma sufficienti per i lavori
domestici. Altre ancora, considerate “ribelli”, vengono ricondotte alla
disciplina con un tizzone ardente infilato tra le gambe, botte continue e privazione di acqua e cibo.
E’ un viaggio nell’orrore della violenza sulle donne quello che propone Paola Tabet nel libro Le dita tagliate.
L’antropologa italiana con un background accademico fatto di ricerche
sul campo, racconta le pratiche di sottomissione messe in atto dagli
uomini sulle donne in diverse parti del mondo come Mali, Costa D’Avorio, Kenya, Niger, Haiti, Nuova Guinea, India, Australia.
Trattamenti choc che servono per spezzare la “resistenza” delle donne,
per renderle soggiogate e obbedienti, per fare in modo che si dedichino a
mettere al mondo i figli, ad accudirli, a badare alla casa, senza
ribellarsi. Un sistema di dominio pervasivo che risalta in maniera
eclatante in certe culture non occidentali ma che è presente ovunque. I
gradi, le forme, la diffusione variano, ma il meccanismo “che costringe
le donne a una condizione subordinata” non cambia.
Usando una categoria marxista, Tabet parla di “violenza di classe”.
Secondo la studiosa, la “concentrazione quasi assoluta delle ricchezze
in mano maschile” e l’endemica “dipendenza economica femminile” fanno sì
che si possa considerare il modo diviso in due grandi classi: la classe
degli uomini che sfrutta la classe delle donne.
L’antropologa individua nel matrimonio l’espressione istituzionalizzata dello scambio iniquo che avviene tra le due classi. Uno scambio “sessuo-economico”
che prevede che le donne offrano prestazioni sessuali e lavoro
riproduttivo (cioè messa al mondo dei figli e conseguente accudimento)
in cambio di un compenso più o meno variabile che può comprendere
mantenimento, sicurezza economica, status sociale. Una tesi forte,
questa, che, come si legge nel saggio, viene rifiutata dalle donne
occidentali.
L’antropologa si spinge oltre e cerca di dimostrare (come ha già fatto nel saggio La grande beffa)
che se alla base del matrimonio c’è uno scambio sessuo-economico allora
non si può considerare questa istituzione così diversa da altre
pratiche che comprendono sempre uno scambio di denaro e sesso
come, ad esempio, la prostituzione. La divisione tra “donne per bene”,
cioè madri e mogli, e prostitute sarebbe dunque artificiosa e non
avrebbe motivo di esistere se si considera la natura dello scambio
economico che regge entrambe. Ci sono casi, secondo la studiosa, in cui
la prostituzione diventa addirittura preferibile ai matrimoni retti sulla coercizione, perché si rivela un’occasione per uscire da un sistema
“funzionale all’ordine sessuale dominante” che prevede che le donne
seguano la retta via per “conservare la struttura familiare” e lasciare
che gli uomini continuino a concentrare nelle proprie mani ricchezza e
potere.
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