Articolo di Dafne Anastasi
Sarà capitato a ciascuna di noi di aprire l’armadio, cercare un paio di pantaloni, sceglierne un paio chiari, magari di quelli di lino che ci ricordano l’estate al mare, e dire “mmmhhh…meglio di no. Aspetto le camurrie”. E chiudere l’armadio optando per i jeans. Preferire il jeans al pantalone bianco è possibile perché quel paio di pantaloni non è una divisa, non è un dress code, non è una scelta datoriale a cui adeguarsi senza tante storie. E che succede se invece la tuta bianca non è una scelta ma un obbligo aziendale?
Succede che un gruppo di operaie, oltre 400, abituate alla catena di montaggio, alle pause sempre più brevi, a fare la pipì solo se strettamente necessario per non interrompere il ciclo produttivo, si ribelli e chieda al proprio datore di lavoro di cambiare idea, di scegliere un colore meno a rischio del bianco, di avere rispetto di un legittimo disagio. Già.
Non deve essere stato facile per quelle operaie porre la questione ciclo mestruale. Così come non deve essere facile lavorare col pensiero di non essere macchiate e provocare risatine o rimanere in bagno a cercare di pulire la propria divisa da lavoro.
Stereotipi e perbenismi di italica connotazione certo non aiutano. Ma lo hanno fatto.
Hanno messo il loro corpo al centro della loro condizione lavorativa.
La risposta dell’azienda è stata, se possibile, ancora peggiore della divisa in tuta bianca: le “coulottes da indossare sotto la tuta per le donne alle prese con indisposizione mestruale”. Un pannolino sotto la divisa.
Non so se sia una pura coincidenza che il caso tuta bianca sia scoppiato alla FCA ( Fiat ) di Melfi , dove pochi mesi fa un’operaia si rifiutò di stringere la mano al Presidente del Consiglio nel bel mezzo del teatrino selfie style del duo Renzi- Marchionne e dove venne inscenato il ballo happy degli operai alla catena. Non so se la scelta della tuta bianca sia in qualche modo una forma di cancellazione dalla memoria collettiva delle mitiche tute blu che in tempi ben più gloriosi dei nostri dettavano la linea delle mobilitazioni nell’Italia che si conquistava lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Non so se effettivamente questa tuta bianca altro non sia che un modello di marketing culturale che deve dare l’idea del lindo, pulito, affidabile sebbene si maneggino catene, oli neri , grassi e chissenefrega se in tutto questo rossori e disagi siano dietro l’angolo.
So, però, che la risposta più bella l’hanno data gli uomini di quella fabbrica, che senza esitazione hanno preso carta e penna e si sono schierati a fianco delle loro compagne di lavoro. Considerando un problema “da donne” come un loro problema, superando la linea di genere per abbracciare la linea della dignità come condizione lavorativa. Eccoli, questi uomini con la U maiuscola. Ecco il loro comunicato:
Sarà capitato a ciascuna di noi di aprire l’armadio, cercare un paio di pantaloni, sceglierne un paio chiari, magari di quelli di lino che ci ricordano l’estate al mare, e dire “mmmhhh…meglio di no. Aspetto le camurrie”. E chiudere l’armadio optando per i jeans. Preferire il jeans al pantalone bianco è possibile perché quel paio di pantaloni non è una divisa, non è un dress code, non è una scelta datoriale a cui adeguarsi senza tante storie. E che succede se invece la tuta bianca non è una scelta ma un obbligo aziendale?
Succede che un gruppo di operaie, oltre 400, abituate alla catena di montaggio, alle pause sempre più brevi, a fare la pipì solo se strettamente necessario per non interrompere il ciclo produttivo, si ribelli e chieda al proprio datore di lavoro di cambiare idea, di scegliere un colore meno a rischio del bianco, di avere rispetto di un legittimo disagio. Già.
Non deve essere stato facile per quelle operaie porre la questione ciclo mestruale. Così come non deve essere facile lavorare col pensiero di non essere macchiate e provocare risatine o rimanere in bagno a cercare di pulire la propria divisa da lavoro.
Stereotipi e perbenismi di italica connotazione certo non aiutano. Ma lo hanno fatto.
Hanno messo il loro corpo al centro della loro condizione lavorativa.
La risposta dell’azienda è stata, se possibile, ancora peggiore della divisa in tuta bianca: le “coulottes da indossare sotto la tuta per le donne alle prese con indisposizione mestruale”. Un pannolino sotto la divisa.
Non so se sia una pura coincidenza che il caso tuta bianca sia scoppiato alla FCA ( Fiat ) di Melfi , dove pochi mesi fa un’operaia si rifiutò di stringere la mano al Presidente del Consiglio nel bel mezzo del teatrino selfie style del duo Renzi- Marchionne e dove venne inscenato il ballo happy degli operai alla catena. Non so se la scelta della tuta bianca sia in qualche modo una forma di cancellazione dalla memoria collettiva delle mitiche tute blu che in tempi ben più gloriosi dei nostri dettavano la linea delle mobilitazioni nell’Italia che si conquistava lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Non so se effettivamente questa tuta bianca altro non sia che un modello di marketing culturale che deve dare l’idea del lindo, pulito, affidabile sebbene si maneggino catene, oli neri , grassi e chissenefrega se in tutto questo rossori e disagi siano dietro l’angolo.
So, però, che la risposta più bella l’hanno data gli uomini di quella fabbrica, che senza esitazione hanno preso carta e penna e si sono schierati a fianco delle loro compagne di lavoro. Considerando un problema “da donne” come un loro problema, superando la linea di genere per abbracciare la linea della dignità come condizione lavorativa. Eccoli, questi uomini con la U maiuscola. Ecco il loro comunicato:
La dignità non ha sesso. Solidarietà alle operaie
Alle colleghe della FCA di Melfi
Alla direzione aziendale
Agli organi di informazione
I lavoratori della FCA di Melfi sostengono con determinazione la battaglia intrapresa dalle colleghe in merito alla sostituzione del pantalone della tuta. Lavoratirici, compagne, amiche che conosciamo da più di vent’anni, con le quali abbiamo condiviso momenti difficili di duro lavoro, svolto sempre con estrema dignità, quella dignità che oggi viene messa in discussione da una culotte.. restiamo allibiti nel sapere che FCA , che annovera tra i propri dirigenti intelligenze di alto livello, possa aver pensato di sopperire alla sotituzione della tuta , dando in dotazione alle lavoratrici una mutanda di plastica una soluzione umiliante che lede l’immagine della donna , ma non solo di essa, questa scelta umilia la natura intelligente di cui l’essere umano è dotato. Le colleghe sappiano che un loro problema è un nostro problema… Qualsiasi iniziativa vorranno intraprendere per affrontare e risolvere la questione, noi saremo al loro fianco. All’azienda consigliamo di fare un passo indietro, di ascoltare le esigenze delle lavoratrici, di rinunciare all’idea delle culottes. Non offendiamo oltre le donne e l’intelligenza di tutti noi ostinandoci nella ricerca di opzioni complicate e imbarazzanti, sostituire il pantalone chiaro con uno di colore scuro è la legittima richiesta avanzata dalle lavoratrici, ed è l’unica alternativa possibile.
I lavoratori della FCA di Melfi
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