Scrivevamo, a proposito delle terribili condizioni di lavoro e di vita delle braccianti in Puglia e in Sicilia, che lo SCIOPERO DELLE DONNE è la risposta necessaria e inevitabile per cambiare lo stato di cose presente.
La coraggiosa lotta delle raccoglitrici del tè, delle lavoratrici delle campagne che in India si sono ribellate alla doppia oppressione, ha ottenuto una prima vittoria e ci dimostra che l'unità e la ribellione delle donne proletarie è la sola via da percorrere contro il capitalismo e il patriarcato, verso un secondo sciopero delle donne che veda in prima linea, anche qui in Italia, le donne più sfruttate e oppresse.
(dal blog proletari comunisti)
Per oltre un mese le piantagioni di tè del Kerala, India meridionale, sono state il teatro di un’agitazione mai vista. Migliaia di raccoglitrici hanno bloccato strade, assediato gli uffici delle piantagioni, fermato il lavoro, ma era molto più di una semplice battaglia sindacale: quelle donne erano in lotta contro i padroni delle piantagioni e anche contro i sindacalisti, contro condizioni di lavoro da schiavi, contro i loro stessi uomini, e contro l’indifferenza dello stato e dei media. E alla fine hanno vinto: sia aumenti di salario, sia soprattutto un po’ di voce.
Piantagione di te, distretto di Munnar, Kerala |
La battaglia è cominciata ai primi di settembre. Le piantagioni di tè in India sembrano rimaste all’era coloniale, salvo che i padroni non sono più britannici: in Kerala sono ad esempio la Kannan Devan Hill Plantation (controllata dalla multinazionale Tata, proprietaria del marchio Tetley) o la Harrison Plantation, le più grandi di una cinquantina di aziende in Kerala.
Le piantagioni di tè sono stupende alla vista, colline ondulate coperte di un verde intenso, ma lavorarci è un inferno: significa raccogliere foglie per lunghe ore, per una paga da miseria, e vivere nelle baracche messe a disposizione dall’azienda, baracchette di una stanza, senza gabinetto né altri comfort essenziali.
Le raccoglitrici sono per lo più donne e sono dalit (fuoricasta, o “intoccabili”: lo scalino più basso e discriminato della gerarchia sociale indiana). Per i loro figli non c’è scuola; i loro mariti fanno lavoro altrettanto malpagati, oppure si consumano con l’alcool.
La rabbia è esplosa quest’estate, quando la Kannan Devan Hill Plantation ha deciso di tagliare il bonus pagato fino ad allora alle lavoratrici – circa il 20 per cento su una paga di 230 rupie al giorno (pari a 3,5 dollari). Un giorno di inizio settembre un gruppo di lavoratrici ha deciso di formare un collettivo che hanno chiamato Pombilai Orumai, «unità delle donne». Quello stesso giorno a gruppi hanno camminato fino agli uffici dell’azienda, nella cittadina di Munnar. Chiedevano di ripristinare il bonus e anche di aumentare i salari; protestavano per lo sfruttamento del loro lavoro, le loro baracche senza cesso e la loro vita tanto dura.
I loro slogan però non erano diretti solo ai padroni delle piantagioni. Anzi, se la prendevano quasi più con i dirigenti del sindacato che in teoria doveva rappresentarle, riferisce il giornale web indiano Catch. Urlavano «Noi fatichiamo tutto il giorno, voi ci saccheggiate». «Noi portiamo foglie di tè nei nostri fagotti, voi portate pacchi di soldi». «Noi viviamo in minuscole baracche, voi vi concedete comodi bungalow».
Le piantagioni di tè sono stupende alla vista, colline ondulate coperte di un verde intenso, ma lavorarci è un inferno: significa raccogliere foglie per lunghe ore, per una paga da miseria, e vivere nelle baracche messe a disposizione dall’azienda, baracchette di una stanza, senza gabinetto né altri comfort essenziali.
Le raccoglitrici sono per lo più donne e sono dalit (fuoricasta, o “intoccabili”: lo scalino più basso e discriminato della gerarchia sociale indiana). Per i loro figli non c’è scuola; i loro mariti fanno lavoro altrettanto malpagati, oppure si consumano con l’alcool.
La rabbia è esplosa quest’estate, quando la Kannan Devan Hill Plantation ha deciso di tagliare il bonus pagato fino ad allora alle lavoratrici – circa il 20 per cento su una paga di 230 rupie al giorno (pari a 3,5 dollari). Un giorno di inizio settembre un gruppo di lavoratrici ha deciso di formare un collettivo che hanno chiamato Pombilai Orumai, «unità delle donne». Quello stesso giorno a gruppi hanno camminato fino agli uffici dell’azienda, nella cittadina di Munnar. Chiedevano di ripristinare il bonus e anche di aumentare i salari; protestavano per lo sfruttamento del loro lavoro, le loro baracche senza cesso e la loro vita tanto dura.
I loro slogan però non erano diretti solo ai padroni delle piantagioni. Anzi, se la prendevano quasi più con i dirigenti del sindacato che in teoria doveva rappresentarle, riferisce il giornale web indiano Catch. Urlavano «Noi fatichiamo tutto il giorno, voi ci saccheggiate». «Noi portiamo foglie di tè nei nostri fagotti, voi portate pacchi di soldi». «Noi viviamo in minuscole baracche, voi vi concedete comodi bungalow».
Durante lo sciopero delle raccoglitrici di tè in Kerala |
Le aziende sono state colte di sorpresa, e anche i sindacalisti. Le piantagioni di tè non conoscevano agitazioni da tempo immemore, almeno da quando hanno trovato un accomodamento con i dirigenti sindacali, a cui garantiscono posti stipendiati e privilegi. Alcuni dirigenti sindacali sono diventati deputati al parlamento dello stato, altri sono di fatto parte di una burocrazia parastatale. Inutile dire che hanno sempre gestito le relazioni industriali in modo più che morbido.
Sta di fatto che quando un padrone delle piantagioni ha deciso di andare a parlare con le donne, queste l’hanno aggredito a colpi di sandali (pare che sia accorsa la polizia a salvarlo).
In breve, lo sciopero è cresciuto; alla fine circa 6.000 lavoratrici da numerose piantagioni, anche distanti, si erano riversate nella cittadina di Munnar, dove hanno assediato gli uffici delle piantagioni – e anche del sindacato. Negozi chiusi, la vita si è bloccata (per recuperare terreno, anche i sindacati allora hanno proclamato uno sciopero per aumenti salariali). La stampa indiana, che all’inizio aveva ignorato la storia, ha cominciato a parlarne.
Infine quelle lavoratrici senza nessuna esperienza sindacale, e spesso semianalfabete, hanno vinto – almeno in parte. Hanno costretto la Kannan Devan Hill (cioè Tata) a ripristinare il bonus. Infine hanno accettato un accordo per un salario di 301 rupie giornaliere: non sono le 500 rupie che loro chiedevano, ma è pur sempre un aumento del 30 percento. Forse ancora più importante, hanno costretto i rappresentanti delle aziende e i sindacalisti a fare i conti con loro.
«Hanno portato alla luce le terribili condizioni di vita e di lavoro in piantagioni ancora coloniali», commenta il quotidiano The Hindu. «Migliaia di donne dalit hanno … rappresentato se stesse in una coraggiosa ribellione contro il capitalismo e il patriarcato, inclusa una struttura sindacale dominata da uomini». Hanno chiamato in causa uno stato assente («le piantagioni sono mini-imperi … l’assenza dello stato è un’eredità coloniale»), sindacati apatici o complici, e un’industria delle piantagioni fondata sullo sfruttamento. (In settembre la Bbc aveva descritto una situazione altrettanto terribile nelle piantagioni dell’Assam, nel nord).
Sta di fatto che quando un padrone delle piantagioni ha deciso di andare a parlare con le donne, queste l’hanno aggredito a colpi di sandali (pare che sia accorsa la polizia a salvarlo).
In breve, lo sciopero è cresciuto; alla fine circa 6.000 lavoratrici da numerose piantagioni, anche distanti, si erano riversate nella cittadina di Munnar, dove hanno assediato gli uffici delle piantagioni – e anche del sindacato. Negozi chiusi, la vita si è bloccata (per recuperare terreno, anche i sindacati allora hanno proclamato uno sciopero per aumenti salariali). La stampa indiana, che all’inizio aveva ignorato la storia, ha cominciato a parlarne.
Infine quelle lavoratrici senza nessuna esperienza sindacale, e spesso semianalfabete, hanno vinto – almeno in parte. Hanno costretto la Kannan Devan Hill (cioè Tata) a ripristinare il bonus. Infine hanno accettato un accordo per un salario di 301 rupie giornaliere: non sono le 500 rupie che loro chiedevano, ma è pur sempre un aumento del 30 percento. Forse ancora più importante, hanno costretto i rappresentanti delle aziende e i sindacalisti a fare i conti con loro.
«Hanno portato alla luce le terribili condizioni di vita e di lavoro in piantagioni ancora coloniali», commenta il quotidiano The Hindu. «Migliaia di donne dalit hanno … rappresentato se stesse in una coraggiosa ribellione contro il capitalismo e il patriarcato, inclusa una struttura sindacale dominata da uomini». Hanno chiamato in causa uno stato assente («le piantagioni sono mini-imperi … l’assenza dello stato è un’eredità coloniale»), sindacati apatici o complici, e un’industria delle piantagioni fondata sullo sfruttamento. (In settembre la Bbc aveva descritto una situazione altrettanto terribile nelle piantagioni dell’Assam, nel nord).
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