24/04/23

10 anni fa il crollo del Rana Plaza: lo sfruttamento dell'imperialismo e dei padroni locali non è cambiato; la lotta delle operaie SI

Il manifesto fatto nel da Mfpr

https://www.repubblica.it/esteri/2023/04/21/news/bangladesh_rana_
plaza_fast_fashion_diritti_lavoratori-396886339/
 
BANGLADESH: VETRINE SPORCHE DI SANGUE...

La stragrande maggioranza erano donne, in quel maledetto fabbricato in cui lavoravano, nelle 5 fabbriche di abbigliamento esistenti e in condizione da moderno schiavismo 3.122 lavoratori. Migliaia di operaie che producono 3 milioni di vestiti, jeans, camicie all'anno, a 28 euro al mese, salario che neanche viene pagato tutti i mesi, con un orario di lavoro che arriva a 18 ore al giorno "a ridosso della consegna".

La rabbia e la lotta degli operai, delle operaie, dei giovani è esplosa subito in tante fabbriche di Dacca - non fermata certo dalla risposta del governo, complice di questa strage, che ha usato lacrimogeni e proiettili di gomma contro operai, parenti degli stessi morti nel crollo.
"...da molte delle migliaia di fabbriche tessili a rischio che sono il cuore dell'economia del Bangladesh sono partiti cortei oceanici di operai: hanno sfilato davanti alla sede della Confederazione delle industrie tessili, ritenute le principali responsabili dei mancati controlli di sicurezza... la folla infuriata, con decine di feriti e assalti a colpi di bastone contro auto e camion che non rispettavano il giorno di lutto nazionale..." (La Repubblica).

Ma non è una strage del "terzo mondo", per cui le coscienze democratiche dei paesi del "primo mondo" possono mettersi la coscienza a posto e "indignarsi".
E' una programmata strage dei paesi più "avanzati" dell'occidente imperialista! Queste morti ricadono sulle spalle dei ricchi proprietari dei più grandi imperi industriali, degli Usa, dell'Europa, dell'Italia, tra cui Benetton! che, in una catena di appalti e subappalti per tagliare al massimo il costo del lavoro, in una nera catena di padroni e padroncini sciacalli assetati di avere le briciole dei profitti delle grandi Marche, arrivano nei paesi come il Bangladesh (2° esportatore al mondo di tessile).
Profitti fatti spingendo le operaie, più di 3 milioni in tutto il Bangladesh su 4 milioni di lavoratori, a lavorare fino allo sfinimento, ad andare a lavorare anche se c'è un evidente pericolo per la loro sicurezza - "... il giorno prima del crollo sulle pareti del Plaza erano apparse crepe minacciose e il palazzinaro Rana (legato al partito di governo) si era fatto intervistare: "nessun pericolo". I manager avevano diffuso messaggi più discreti: "venite a lavorare, tutto a posto", aveva fatto sapere il capo di Sofura, aggiungendo una minaccia più grande di una crepa: "Altrimenti vi lasciamo a casa e vi scordate gli arretrati".... l'edificio (di 8 piani) era omologato per cinque piani (gli altri tre abusivi)...". (Corriere della Sera).
I grandi capitalisti nostrani non si sporcano le mani! "Non spetta a noi occuparcene" hanno dichiarato la gran parte delle industrie mondiali. Loro lasciano fare agli schiavisti locali di rovinare, fino alla morte, vite giovanissime. A novembre scorso 112 operaie erano bruciate vive, producevano golf e calzoncini. Ai capitalisti interessano gli utili miliardari, puliti (oltre 20 miliardi di dollari di fatturato).

E quegli abiti, sporchi di sudore e sangue, pagati a otto centesimi in Bangladedsh, arrivano poi nelle nostre vetrine luccicanti, attraenti, spesso costosi.
Finchè il capitalismo con la sua sete di profitti continua a sopravvivere è un inferno per i proletari - con le donne e i ragazzi più sfruttati, oppressi, violentati - per i popoli, per l'umanità!
Per questo è vitale per i proletari, le donne, i popoli rovesciare il capitalismo con la rivoluzione proletaria.

Un Filo rosso sangue tessuto a macchina

"C'è un filo rosso, un filo tes­suto a mac­china, che dalle rovine di Dacca, in Ban­gla­desh, si dipana in tutta l’Asia: dalla Tur­chia a Ovest all’Indonesia a Est. Un filo rosso che passa dalla Cina (primo pro­dut­tore mon­diale del tes­sile con un fat­tu­rato di 115 miliardi di dol­lari), dai quar­tieri di molte città indiane o dalle peri­fe­rie dei cen­tri cambogiani.
Pro­prio la Cam­bo­gia, non meno che in Ban­gla­desh, la vicenda del Rana Plaza — ma anche i tanti inci­denti nelle fab­bri­che spesso prive delle ele­men­tari norme di sicu­rezza – ha dato la stura a una pro­te­sta che riven­dica da mesi un sala­rio decente. Diversi mani­fe­stanti sono stati uccisi da una dura repres­sione dei moti sin­da­cali che, dal 24 dicem­bre scorso, chie­dono un aumento del sala­rio minimo da 80 dol­lari a 160.
In Ban­gla­desh invece, forse il Paese più con­ve­niente per i mar­chi che hanno deciso di inve­stire qui pre­fe­ren­dolo per­sino alla Cina e all’India (13 mld di fat­tu­rato), la richie­sta di ade­gua­mento sala­riale si è fer­mata a ottanta dol­lari. Le lotte inne­scate l’anno scorso hanno fatto siglare un par­ziale aumento al governo, ma da qui a farlo rispet­tare ce ne corre.
Gli inve­sti­tori stra­nieri sono con­ti­nua­mente in cerca di nuove strade dove pagare meno, otte­nere qua­lità, non dover fare i conti col sin­da­cato, poter trat­tare con governi com­pia­centi. La Cam­bo­gia è una di que­ste nuove fron­tiere ma anche il Viet­nam: Paesi meno cari dell’Indonesia (15,5 mld di fat­tu­rato) che vanta però una mano­do­pera spe­cia­liz­zata in un Paese dove ormai la dit­ta­tura tren­ten­nale di Suharto è un ricordo, dove il tes­sile ha una lunga sto­ria e si fa anche molta for­ma­zione e quindi la qua­lità del pro­dotto – oltre che il poli­ti­cally cor­rect — è garan­tita, pur se costa di più per unità di pro­dotto. Se Hanoi e Phnom Penh sono le capi­tali più get­to­nate, una parte impor­tante della delo­ca­liz­za­zione del tes­sile resta ancora in India e Paki­stan per la capa­cità, tra l’altro, di garan­tire sistemi indu­striali di con­fe­zione e di spe­di­zione. Poco importa se anche qui la catena di inci­denti è lunga e le con­di­zioni di lavoro spesso bestiali; situa­zioni dove si sfrutta una mano­do­pera – per lo più fem­mi­nile e spesso mino­rile — reclu­tata nelle cam­pa­gne dove c’è fame di lavoro e riluce il fascino della moder­nità urbana.
Comun­que, per capire come va il mer­cato biso­gna guar­dare i dati dell’export tes­sile: al primo posto c’è la Cina (159,6 mln di dol­lari), il Ban­gla­desh è al terzo (oltre 19 mln), al sesto, set­timo e ottavo rispet­ti­va­mente Tur­chia, Viet­nam e India (circa 14 mln), al 13mo l’Indonesia (7,5). Chi com­pra? Ai primi posti gli Stati uniti, seguiti da Giap­pone, Ger­ma­nia, Gran Bre­ta­gna, Fran­cia, Hong Kong, Ita­lia, e Spagna". (Da Il Manifesto)

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