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Il manifesto fatto nel da Mfpr |
https://www.repubblica.it/esteri/2023/04/21/news/bangladesh_rana_
plaza_fast_fashion_diritti_lavoratori-396886339/
BANGLADESH: VETRINE SPORCHE DI SANGUE...
La stragrande maggioranza erano donne, in quel maledetto fabbricato in cui lavoravano, nelle 5 fabbriche di abbigliamento esistenti e in condizione da moderno schiavismo 3.122 lavoratori. Migliaia di operaie che producono 3 milioni di vestiti, jeans, camicie all'anno, a 28 euro al mese, salario che neanche viene pagato tutti i mesi, con un orario di lavoro che arriva a 18 ore al giorno "a ridosso della consegna".
La rabbia e la lotta degli operai, delle operaie, dei giovani è esplosa subito in tante fabbriche di Dacca - non fermata certo dalla risposta del governo, complice di questa strage, che ha usato lacrimogeni e proiettili di gomma contro operai, parenti degli stessi morti nel crollo.
"...da molte delle migliaia di fabbriche tessili a rischio che sono il cuore dell'economia del Bangladesh sono partiti cortei oceanici di operai: hanno sfilato davanti alla sede della Confederazione delle industrie tessili, ritenute le principali responsabili dei mancati controlli di sicurezza... la folla infuriata, con decine di feriti e assalti a colpi di bastone contro auto e camion che non rispettavano il giorno di lutto nazionale..." (La Repubblica).
Ma non è una strage del "terzo mondo", per cui le coscienze democratiche dei paesi del "primo mondo" possono mettersi la coscienza a posto e "indignarsi".
E' una programmata strage dei paesi più "avanzati" dell'occidente imperialista! Queste morti ricadono sulle spalle dei ricchi proprietari dei più grandi imperi industriali, degli Usa, dell'Europa, dell'Italia, tra cui Benetton! che, in una catena di appalti e subappalti per tagliare al massimo il costo del lavoro, in una nera catena di padroni e padroncini sciacalli assetati di avere le briciole dei profitti delle grandi Marche, arrivano nei paesi come il Bangladesh (2° esportatore al mondo di tessile).
Profitti fatti spingendo le operaie, più di 3 milioni in tutto il Bangladesh su 4 milioni di lavoratori, a lavorare fino allo sfinimento, ad andare a lavorare anche se c'è un evidente pericolo per la loro sicurezza - "... il giorno prima del crollo sulle pareti del Plaza erano apparse crepe minacciose e il palazzinaro Rana (legato al partito di governo) si era fatto intervistare: "nessun pericolo". I manager avevano diffuso messaggi più discreti: "venite a lavorare, tutto a posto", aveva fatto sapere il capo di Sofura, aggiungendo una minaccia più grande di una crepa: "Altrimenti vi lasciamo a casa e vi scordate gli arretrati".... l'edificio (di 8 piani) era omologato per cinque piani (gli altri tre abusivi)...". (Corriere della Sera).
I grandi capitalisti nostrani non si sporcano le mani! "Non spetta a noi occuparcene" hanno dichiarato la gran parte delle industrie mondiali. Loro lasciano fare agli schiavisti locali di rovinare, fino alla morte, vite giovanissime. A novembre scorso 112 operaie erano bruciate vive, producevano golf e calzoncini. Ai capitalisti interessano gli utili miliardari, puliti (oltre 20 miliardi di dollari di fatturato).
E quegli abiti, sporchi di sudore e sangue, pagati a otto centesimi in Bangladedsh, arrivano poi nelle nostre vetrine luccicanti, attraenti, spesso costosi.
Finchè il capitalismo con la sua sete di profitti continua a sopravvivere è un inferno per i proletari - con le donne e i ragazzi più sfruttati, oppressi, violentati - per i popoli, per l'umanità!
Per questo è vitale per i proletari, le donne, i popoli rovesciare il capitalismo con la rivoluzione proletaria.
Un Filo rosso sangue tessuto a macchina
"C'è un filo rosso, un filo tessuto a macchina, che dalle rovine di Dacca, in Bangladesh, si dipana in tutta l’Asia: dalla Turchia a Ovest all’Indonesia a Est. Un filo rosso che passa dalla Cina (primo produttore mondiale del tessile con un fatturato di 115 miliardi di dollari), dai quartieri di molte città indiane o dalle periferie dei centri cambogiani.
Proprio la Cambogia, non meno che in Bangladesh, la vicenda del Rana Plaza — ma anche i tanti incidenti nelle fabbriche spesso prive delle elementari norme di sicurezza – ha dato la stura a una protesta che rivendica da mesi un salario decente. Diversi manifestanti sono stati uccisi da una dura repressione dei moti sindacali che, dal 24 dicembre scorso, chiedono un aumento del salario minimo da 80 dollari a 160.
In Bangladesh invece, forse il Paese più conveniente per i marchi che hanno deciso di investire qui preferendolo persino alla Cina e all’India (13 mld di fatturato), la richiesta di adeguamento salariale si è fermata a ottanta dollari. Le lotte innescate l’anno scorso hanno fatto siglare un parziale aumento al governo, ma da qui a farlo rispettare ce ne corre.
Gli investitori stranieri sono continuamente in cerca di nuove strade dove pagare meno, ottenere qualità, non dover fare i conti col sindacato, poter trattare con governi compiacenti. La Cambogia è una di queste nuove frontiere ma anche il Vietnam: Paesi meno cari dell’Indonesia (15,5 mld di fatturato) che vanta però una manodopera specializzata in un Paese dove ormai la dittatura trentennale di Suharto è un ricordo, dove il tessile ha una lunga storia e si fa anche molta formazione e quindi la qualità del prodotto – oltre che il politically correct — è garantita, pur se costa di più per unità di prodotto. Se Hanoi e Phnom Penh sono le capitali più gettonate, una parte importante della delocalizzazione del tessile resta ancora in India e Pakistan per la capacità, tra l’altro, di garantire sistemi industriali di confezione e di spedizione. Poco importa se anche qui la catena di incidenti è lunga e le condizioni di lavoro spesso bestiali; situazioni dove si sfrutta una manodopera – per lo più femminile e spesso minorile — reclutata nelle campagne dove c’è fame di lavoro e riluce il fascino della modernità urbana.
Comunque, per capire come va il mercato bisogna guardare i dati dell’export tessile: al primo posto c’è la Cina (159,6 mln di dollari), il Bangladesh è al terzo (oltre 19 mln), al sesto, settimo e ottavo rispettivamente Turchia, Vietnam e India (circa 14 mln), al 13mo l’Indonesia (7,5). Chi compra? Ai primi posti gli Stati uniti, seguiti da Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Hong Kong, Italia, e Spagna". (Da Il Manifesto)
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