Contro la Jihad sessuale e la regressione sociale in senso feudale dell'Isis, contro l'imperialismo diretto e indiretto, contro ogni doppia e tripla oppressione delle donne, l'unica soluzione è la guerra popolare con le donne in prima fila.
Da Infoaut:
Non appena fu chiaro che non si trattava di mazzi di gelsomini e di
bloggers gentili la Casa Bianca, gli alleati occidentali e sauditi
corsero ai ripari. Israele per primo sembrava aver capito quanto stava
accadendo invitando subito il proprio socio Mubarak a “sterminarli
tutti”. I processi rivoluzionari emersi in superficie nel 2011
non erano neutralizzabili tramite la repressione più violenta e la
strategia del “regime change”, con la transizione demo-islamista che si è
dimostrata debole ed inefficace.
La guerra articolata in
differenti varianti si è imposta come la principale risorsa
dell'imperialismo nel contesto del soft power obamiano. Dapprima si è
atteso che scampoli di proletariato rurale in Libia scendessero in
strada con qualche cartello chiedendo quasi permesso al regime di
imitare i tunisini e gli egiziani, il regime rispose con il micidiale
autismo repressivo di cui non si poteva che essere certi, e poi sono
stati attivati i covi delle serpi: i contractors della jihad del nuovo
millennio. Dopo poco scattava l'intervento armato che oltre ad
assicurare sul momento alle potenza in gioco le risorse libiche, pestava
duro politicamente, in prospettiva, su Piazza Tahrir soprattutto, e poi
sulla Casbah di Tunisi, in Yemen, in Bahrain e nel resto del Vicino
Oriente. Chi scrive ricorda le mobilitazioni degli studenti di Bagdad
che riuscirono a buttare giù le mura della Green Zone che proteggono le
autorità vassalle degli USA dal resto dell'Iraq, ma successivamente con
il ritorno della guerra: il silenzio. Poi fu il turno della Siria che ha
seguito uno schema molto simile, giovandosi anche della repentina
giravolta, nello scacchiere geopolitico, della Turchia di Erdogan.
Gli interventi armati delle potenze occidentali sul breve e lungo termine sono attacchi frontali ai processi rivoluzionari,
e tutti i dispositivi che attivano, dall'ISIS fino ai bombardamenti via
aerea e alle truppe di terra sono rivolti contro i movimenti di
liberazione dalla povertà e dalla miseria. Con l'uccisione di Osama Bin
Laden e della sua particolare interpretazione dell'internazionalismo
wahabita, si è passati all'esercito, dalle movenze neo-mongole,
dell'ISIS, dai numeri molto esigui, dal consenso popolare pari quasi
allo zero, ma molto efficace a riportare lo scontro interno alla civiltà
capitalistica provocato dai processi rivoluzionari, nello scontro tra
le civiltà. La lotta di classe, nella sua dimensione macroscopica di
processo rivoluzionario dispiegato ed esplicito, la si batte con la
guerra imperialista che confessionalizza o etnicizza le battaglie e poi
lo scopo ultimo del conflitto, che dalla liberazione dallo sfruttamento,
diviene la supremazia di quello o quell'altro elemento etnico o
confessionale, che ben nasconde il mantenimento dello stato di cose
presenti: le potenze occidentali che continuano, o meglio vorrebbero
continuare, a divorare indisturbate i territori e gli abitanti del
pianeta terra.
Ma nella macro regione mediterranea e ad
est, che da decenni era territorio bellico di nuova conquista per le
potenze occidentali, si sono aperti spazi di possibilità grazie alla
prima grande esplosione rivoluzionaria del 2011, che se colti possono
concretizzare importanti esperienze di autonomia e resistenza. E' il
caso dei territori del PKK e del Rojava siriano, dove le comunità kurde
sono riuscite a farsi espressione politica, tramite contro-istituzioni e
forme di auto-difesa, delle istanze dei processi rivoluzionari,
sperimentando primi embrioni di Autonomia nel Vicino Oriente. Un modello
di autogoverno, radicalmente democratico, a-confessionale e a-etnico
che si auto-difende e resiste a tutte le forze reazionarie sia regolari
che irregolari presenti nei territori confinanti. Da questo punto di
vista la somministrazione di finanziamenti e materiale bellico alle
elites kurde dell'Iraq, e ai loro eserciti e miliziani, è immediatamente
ostile e nemica al Rojava e al PKK, in quanto la leadership kurda
dell'Iraq funziona per mantenere etnico e poi confessionale il
conflitto, adombrando le reali ragioni della guerra: le risorse del
territorio iracheno e non solo, oggetto da decenni delle sanguinose
rapine occidentali. L'entità kurda dell'Iraq, e i suoi rappresentanti
sono i vassalli a stelle e strisce e israeliani in loco. Non a caso
molti kurdi iracheni hanno raggiunto le fila del PKK e dell'YPJ
riconoscendo nel loro progetto politico la soluzione di classe alle
catastrofi che da tempo massacrano le loro terre.
In
questo contesto bellico, dove la possibilità per la pace sta sui fucili
delle guerrigliere kurde del Rojava già capaci di mettere in fuga l'ISIS
da un vastissimo territorio, non poteva che figurare come
ignobile e miserabile la politica estera italiana, guidata dal
pagliaccio di Firenze. In attesa che i parlamentari italiani tornino
dalle tintarelle estive, il presidente del consiglio Renzi è andato nel
Kurdistan Iracheno promettendo armi e materiale alle autorità, e in nome
dell'Unione Europea intera ha garantito ampio sostegno militare alla
propaggine imperialista in loco, che una volta assicurata la “pax”
intorno alle risorse idriche e petrolifere oggi controllate dall'ISIS
potrà rivolgere i fucili contro i rivoluzionari kurdi, e poi anche
contro l'esercito regolare di Bagdad, aumentando a dismisura il
conflitto etnico tra le fazioni. A ciò si è aggiunta la diffusione del
video della decapitazione del giornalista USA per mano di un
guerrigliero dell'ISIS, che oltre atlantico sta fomentando l'idea di una
nuova aggressione militare diretta contro la Siria, mentre in Europa fa
alzare, su consiglio dei servizi di intelligence, l'allarme terrorismo
al livello post-11 settembre, il tutto ad uso e consumo di possibili
nuovi interventi nell'area, e diffusione di paure e controllo nel
continente. E' chiaro che ogni eventuale operazione bellica in Siria
sarà lo strumento indiretto politico o magari anche l'iniziativa
militare esplicita per distruggere l'ipotesi politica che incarnano le
contro-istituzioni del Rojava.
Ma il mondo del 2014 non è più il mondo per la “guerra infinita” di Bush,
e nella macroarea mediterranea non ci sono solo più guerre e massacri
condotte da giganti bellici contro popolazioni civili inermi e costrette
all'impotenza. C'è Gaza infatti, che resiste eroicamente alla violenza
assassina sionista, c'è il Rojava che si autogoverna e si autodifende, e
c'è quello straordinario spazio di possibilità aperto dai processi
rivoluzionari del 2011, che nella relativa latenza attuale aspetta di
tornare in superficie carico delle contraddizioni tutte irrisolte che
avevano determinato la prima sollevazione trans-nazionale. Il Re
Travicello della Casa Bianca con il volto coperto dagli schizzi di
sangue di Ferguson continuerà a vacillare insieme ai suoi alleati su una
strategia che gli può garantire risultati sul brevissimo termine, ma
che sul medio e lungo periodo compare ceca o completamente assente. E'
il mondo del sistema capitalistico in crisi, dove nella sua
multipolarità, dal 2011 ad oggi si è fatto largo uno spazio nuovo di
possibilità, rivoluzionarie per l'appunto. Gli interrogativi che sono
emersi dai processi rivoluzionari non hanno trovato risposte complessive
già adeguate sul livello dello scontro, una tra tutte, soprattutto
nella regione sud ed est del mediterraneo, la funzione-organizzazione di
parte, che ha fatto sponda fin sull'europa meridionale e balcanica,
ponendoci anche il problema della sperimentazione di un rinnovato
internazionalismo all'altezza della sfida. Ma ciò non ci fa esitare
nell'essere partigiani della grande resistenza di Gaza, e del possente
contrattacco politico e militare del Rojava, perché una possibilità per
la pace, quella vera, inizia con la loro, nostra, vittoria!
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