Ieri pomeriggio, a Napoli, in pieno centro storico, nei vicoli
attorno l'università, una studentessa è stata aggredita e violentata da
un uomo a lei sconosciuto. Purtroppo non sono notizie che ci
capita di sentire saltuariamente, ma ogni volta è straziante e fa ancora
più rabbrividire quando avvengono proprio per le strade che per studio,
lavoro e attività politica ci ritroviamo a vivere, a pieno, ogni
giorno. Leggendo la notizia sui vari giornali già immaginiamo quali
potranno essere le reazioni istituzionali e dichiarazioni riportate,
cavalcando l’onda emotiva, in un periodo come questo in cui il tema
della violenza sulle donne è ripreso spesso nei salotti televisivi.
Purtroppo non se ne parla come vorremmo noi e quindi per la
tantissima rabbia derivata da quest’episodio e l’altrettanta voglia di
voler cambiare le cose, buttiamo giù due brevissime riflessioni.
Parlare di violenza di genere in qualsiasi forma questa si concretizzi, -dallo stupro dentro e fuori casa, al “femminicidio”, passando per aborti e pillole vietati, difficoltà di accesso ai consultori e centri anti-violenza, lettere di dimissioni in bianco in caso di gravidanza, l’obbligo di doversi assumere il cosiddetto “lavoro di cura”, assenza di asili nido e di uno stato sociale a tutto tondo, e molto altro ancora-, ci deve portare a riflettere su quale sia la condizione della donna nella società odierna (e quindi tenendo conto degli attuali rapporti sociali e di produzione), sul perché avvengano certi episodi e verso cosa ci stiamo dirigendo. Quello di oggi a Napoli, come i tanti altri e tragici episodi di questo tipo, ci deve portare soprattutto a decostruire quelle interpretazioni (volutamente) sbagliate del problema da cui derivano (false) soluzioni spesso non soddisfacenti, se non addirittura dannose e controproducenti. Scrivendo questo pensiamo a chi (dai partiti alle associazioni di ogni colore), invece di lavorare nell’ottica di sradicare il problema, utilizza strumentalmente i casi di violenza di genere per chiedere a gran voce un aumento di controllo e militarizzazione dei territori (tralasciando che i militari che passeggiano a piazza del Gesù continueranno ad essere inutili e omettendo, soprattutto, che sono numerosissimi i casi in cui polizia, carabinieri e militari stessi hanno abusato o ucciso donne recatesi nelle caserme per denunciare violenze, o durante le operazioni “strade sicure” e gli esempi potrebbero continuare all’infinito - leggi qui, qui, qui, qui). O pensiamo a chi, al contempo, si fa paladino dei “diritti delle donne”, dimenticandosi quanto lo stato di diritto sia tranquillamente scavalcabile e dimostri quanto l’emancipazione politica e sociale non sia sufficiente per un reale miglioramento della vita delle donne (e non solo). E anche qui le dimostrazioni si sprecano: processi ad uomini denunciati per stalking (dal 2009 è reato) che iniziano dopo che la donna è stata uccisa; la legge 194 che viene tranquillamente dribblata piazzando obiettori di coscienza in consultori, ospedali e farmacie. Questi sono solo alcuni esempi, ma sicuramente paradigmatici di quanto siano sbagliati e da rifiutare determinati approcci alla questione.
E vogliamo citare anche un’esperienza risultata formativa ed interessante che abbiamo avuto nell’organizzare un’iniziativa sul protagonismo femminile nelle rivolte egiziane: nell’ultimo anno erano diventati molto frequenti episodi di stupri pubblici e di gruppo durante cortei, come strumento di punizione, come deterrente nei confronti di tutte le donne che hanno deciso di partecipare attivamente a quel processo rivoluzionario che ancora oggi è in corso in Egitto e che è partito dalla presa di coscienza di lavoratrici e lavoratori, dalle lotte nelle fabbriche tessili, nella formazione di sindacati di base, per poi riempire la famosa piazza Tahrir. L’elemento interessante e da cui dovremmo trarre insegnamento è la risposta che le donne egiziane hanno messo in campo: non sono tornate a casa, non hanno invocato interventi dello SCAF (che purtroppo era più che presente), non hanno creduto alla favola dei raptus passionali, ma hanno rifiutato l’idea di se stesse come vittime individuali e hanno rilanciato organizzando collettivamente la propria rabbia, hanno continuato ad alimentare le lotte che le vedevano protagoniste già da molti anni e hanno riempito le piazze e fatto azioni anche condannando apertamente gli episodi di stupro e su altri aspetti relativi alle questioni di genere. Il tutto, ovviamente, sganciandosi dal “femminismo di regime” rappresentato da Suzanne Mubarak e continuando a lottare per bloccare le privatizzazioni, contro i tagli al welfare e all’istruzione, contro la chiusura delle fabbriche, per il diritto di organizzarsi e avere voce in capitolo sui posti di lavoro.
E se la loro esperienza ci è utile, è anche perché ci ricorda che la violenza di genere, come tutte le problematiche che girano attorno alla “questione femminile” non ha radici esclusivamente culturali e quindi, nel caso egiziano, gli stupri non sono dovuti ad una “cultura arretrata”, come qualche “islamofobo” di professione ha dichiarato, tantomeno i “nostri” problemi andranno scomparendo andando avanti negli anni, come qualcuno potrebbe pensare guardando la storia delle donne dal 1700 ad oggi. Gli episodi come quello di ieri, lo stupro di una studentessa di 23 anni, in pieno giorno, in pieno centro, ci ricordano che la barbarie è sempre dietro l’angolo.
Sicuramente è tutto molto complesso, anche per la carenza di un dibattito serio e approfondito e del bombardamento, dall’altra parte, di messaggi sbagliati e soluzioni fuorvianti. Per questo, mesi fa, abbiamo provato a mettere su carta un ragionamento più complessivo «sul nesso tra subordinazione di genere e sfruttamento economico, tra violenza domestica e violenza sui posti di lavoro, tra la “spietatezza” degli uomini – dei mariti, dei padri – e “spietatezza” dei padroni, sul rapporto/scontro di genere in relazione al modo di produzione capitalistico che lo informa e lo impiega a suo uso e consumo». Così è nato il documento “La crisi ha il volto delle donne. Spunti di riflessione per un dibattito su violenza di genere e crisi economica” che vi invitiamo a leggere a commentare.
La violenza dell’uomo sulla donna è perfettamente speculare a quella tra sfruttatore e sfruttato. Quando si ribella? Merita una punizione. Se persiste? Dev’essere annientato. E quindi non ci resta che spezzare tutte le catene nelle quali ci troviamo imbrigliati, non ci resta che riprenderci e dotarci di quegli strumenti per ritagliarci un’indipendenza che ci permetta di abbandonare il compagno violento e ricominciare altrove, non ci resta che lottare per costruire una società totalmente diversa: lotteremo fino a quando nel mondo non esisteranno più oppressi ed oppressori!
Per approfondire:
-Egitto: le lavoratrici prendono parola
-Violenza sessuale contro le donne e l'aumento degli stupri di gruppo a Piazza Tahrir e dintorni
-Femminismo imperialista, Islamofobia e la Rivoluzione egiziana
Letture consigliate:
-Il vaso di Pandora - ovvero ciò che non è più possibile tornare a celare
Parlare di violenza di genere in qualsiasi forma questa si concretizzi, -dallo stupro dentro e fuori casa, al “femminicidio”, passando per aborti e pillole vietati, difficoltà di accesso ai consultori e centri anti-violenza, lettere di dimissioni in bianco in caso di gravidanza, l’obbligo di doversi assumere il cosiddetto “lavoro di cura”, assenza di asili nido e di uno stato sociale a tutto tondo, e molto altro ancora-, ci deve portare a riflettere su quale sia la condizione della donna nella società odierna (e quindi tenendo conto degli attuali rapporti sociali e di produzione), sul perché avvengano certi episodi e verso cosa ci stiamo dirigendo. Quello di oggi a Napoli, come i tanti altri e tragici episodi di questo tipo, ci deve portare soprattutto a decostruire quelle interpretazioni (volutamente) sbagliate del problema da cui derivano (false) soluzioni spesso non soddisfacenti, se non addirittura dannose e controproducenti. Scrivendo questo pensiamo a chi (dai partiti alle associazioni di ogni colore), invece di lavorare nell’ottica di sradicare il problema, utilizza strumentalmente i casi di violenza di genere per chiedere a gran voce un aumento di controllo e militarizzazione dei territori (tralasciando che i militari che passeggiano a piazza del Gesù continueranno ad essere inutili e omettendo, soprattutto, che sono numerosissimi i casi in cui polizia, carabinieri e militari stessi hanno abusato o ucciso donne recatesi nelle caserme per denunciare violenze, o durante le operazioni “strade sicure” e gli esempi potrebbero continuare all’infinito - leggi qui, qui, qui, qui). O pensiamo a chi, al contempo, si fa paladino dei “diritti delle donne”, dimenticandosi quanto lo stato di diritto sia tranquillamente scavalcabile e dimostri quanto l’emancipazione politica e sociale non sia sufficiente per un reale miglioramento della vita delle donne (e non solo). E anche qui le dimostrazioni si sprecano: processi ad uomini denunciati per stalking (dal 2009 è reato) che iniziano dopo che la donna è stata uccisa; la legge 194 che viene tranquillamente dribblata piazzando obiettori di coscienza in consultori, ospedali e farmacie. Questi sono solo alcuni esempi, ma sicuramente paradigmatici di quanto siano sbagliati e da rifiutare determinati approcci alla questione.
E vogliamo citare anche un’esperienza risultata formativa ed interessante che abbiamo avuto nell’organizzare un’iniziativa sul protagonismo femminile nelle rivolte egiziane: nell’ultimo anno erano diventati molto frequenti episodi di stupri pubblici e di gruppo durante cortei, come strumento di punizione, come deterrente nei confronti di tutte le donne che hanno deciso di partecipare attivamente a quel processo rivoluzionario che ancora oggi è in corso in Egitto e che è partito dalla presa di coscienza di lavoratrici e lavoratori, dalle lotte nelle fabbriche tessili, nella formazione di sindacati di base, per poi riempire la famosa piazza Tahrir. L’elemento interessante e da cui dovremmo trarre insegnamento è la risposta che le donne egiziane hanno messo in campo: non sono tornate a casa, non hanno invocato interventi dello SCAF (che purtroppo era più che presente), non hanno creduto alla favola dei raptus passionali, ma hanno rifiutato l’idea di se stesse come vittime individuali e hanno rilanciato organizzando collettivamente la propria rabbia, hanno continuato ad alimentare le lotte che le vedevano protagoniste già da molti anni e hanno riempito le piazze e fatto azioni anche condannando apertamente gli episodi di stupro e su altri aspetti relativi alle questioni di genere. Il tutto, ovviamente, sganciandosi dal “femminismo di regime” rappresentato da Suzanne Mubarak e continuando a lottare per bloccare le privatizzazioni, contro i tagli al welfare e all’istruzione, contro la chiusura delle fabbriche, per il diritto di organizzarsi e avere voce in capitolo sui posti di lavoro.
E se la loro esperienza ci è utile, è anche perché ci ricorda che la violenza di genere, come tutte le problematiche che girano attorno alla “questione femminile” non ha radici esclusivamente culturali e quindi, nel caso egiziano, gli stupri non sono dovuti ad una “cultura arretrata”, come qualche “islamofobo” di professione ha dichiarato, tantomeno i “nostri” problemi andranno scomparendo andando avanti negli anni, come qualcuno potrebbe pensare guardando la storia delle donne dal 1700 ad oggi. Gli episodi come quello di ieri, lo stupro di una studentessa di 23 anni, in pieno giorno, in pieno centro, ci ricordano che la barbarie è sempre dietro l’angolo.
Sicuramente è tutto molto complesso, anche per la carenza di un dibattito serio e approfondito e del bombardamento, dall’altra parte, di messaggi sbagliati e soluzioni fuorvianti. Per questo, mesi fa, abbiamo provato a mettere su carta un ragionamento più complessivo «sul nesso tra subordinazione di genere e sfruttamento economico, tra violenza domestica e violenza sui posti di lavoro, tra la “spietatezza” degli uomini – dei mariti, dei padri – e “spietatezza” dei padroni, sul rapporto/scontro di genere in relazione al modo di produzione capitalistico che lo informa e lo impiega a suo uso e consumo». Così è nato il documento “La crisi ha il volto delle donne. Spunti di riflessione per un dibattito su violenza di genere e crisi economica” che vi invitiamo a leggere a commentare.
La violenza dell’uomo sulla donna è perfettamente speculare a quella tra sfruttatore e sfruttato. Quando si ribella? Merita una punizione. Se persiste? Dev’essere annientato. E quindi non ci resta che spezzare tutte le catene nelle quali ci troviamo imbrigliati, non ci resta che riprenderci e dotarci di quegli strumenti per ritagliarci un’indipendenza che ci permetta di abbandonare il compagno violento e ricominciare altrove, non ci resta che lottare per costruire una società totalmente diversa: lotteremo fino a quando nel mondo non esisteranno più oppressi ed oppressori!
Per approfondire:
-Egitto: le lavoratrici prendono parola
-Violenza sessuale contro le donne e l'aumento degli stupri di gruppo a Piazza Tahrir e dintorni
-Femminismo imperialista, Islamofobia e la Rivoluzione egiziana
Letture consigliate:
-Il vaso di Pandora - ovvero ciò che non è più possibile tornare a celare
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