17/08/15

LE VIOLENZE SULLE DONNE NELLE SALE PARTO IN INDIA

la doppia violenza di genere e di classe è sempre più schifosa, in India le donne più povere subiscono violenze persino in sala parto. Le donne devono essere l'avanguardia delle masse proletarie in rivolta contro la doppia oppressione del capitale, la rivoluzione proletaria sarà la liberazione dallo sfruttamento e dalla schiavitù dal capitalismo.

Il governo indiano sta promuovendo i parti nelle cliniche ospedaliere per ridurre il tasso di mortalità materna, senza tener conto delle violenze da parte del personale
di Sabika Shah Povia
 
Tre donne in stato di gravidanza nella città di Anand, in India. Credit: Mansi Thapliyal
Nel villaggio di Santhal a Birbhum, distretto dell'India orientale, nessuno ha un certificato di nascita. Alle donne tribali non piace andare all'ospedale per partorire. Dicono che il personale le tratta male: “Noi trattiamo con molta più cura le nostre capre e i nostri bufali, rispetto a come loro trattano i pazienti”.
Sotto le pressioni della comunità internazionale, per raggiungere l'Obiettivo di sviluppo del Millennio di ridurre il tasso di mortalità materna a 109 morti per ogni 100.000 bambini nati vivi entro il 2015, il governo indiano sta cercando di istituzionalizzare il parto, ovvero renderlo obbligatorio in cliniche pubbliche o private ufficialmente riconosciute.
Infatti, si pensa che i decessi durante il parto siano principalmente dovuti alle scarse condizioni igieniche e all'assistenza prestata da persone che non hanno le competenze adeguate.
Eppure, le donne indiane non amano partorire in ospedali pubblici. Piuttosto rischiano la vita partorendo in casa.
La classe media e l'élite del Paese possono permettersi di andare in cliniche private, ma non la maggior parte delle donne indiane; quelle che si presentano negli ospedali pubblici appartengono di fatto alle classi sociali più basse. Forse è anche per questo che durante il ricovero e il parto vengono derise, insultate, offese e volte anche picchiate.
“Tutti i miei compagni del corso hanno preso a schiaffi le pazienti. È quasi un rito di passaggio,” ha raccontato a Quartz Romit, giovane medico di un'ospedale nella città di Calcutta. “Una volta c'era un ragazzo così timido che non perdeva mai la pazienza. Il giorno in cui ha dato il suo primo schiaffo a una paziente lo abbiamo costretto a offrirci la cena per festeggiare”.
Romit non riesce neanche a ricordare la prima volta che ha usato la violenza in sala parto.
Dal 2005, per istituzionalizzare il parto e allo stesso tempo contenere la crescita della popolazione, il governo indiano ha introdotto il Janani Suraksha Yojana (JSY), un programma secondo il quale chi accetta di partorire in ospedale riceve un compenso economico. Per ricevere il compenso dal terzo parto in poi, però, la donna deve acconsentire obbligatoriamente anche alla sterilizzazione.
Il governo indiano è stato criticato in quanto mette a punto programmi come il JSY e cerca di incoraggiare le donne a partorire negli ospedali, ma senza tener conto dell'atteggiamento del personale degli ospedali nei confronti delle pazienti. Le ispezioni commissionate dalla National Health Mission - iniziativa intrapresa dal governo indiano per migliorare le condizioni di salute della popolazione in aree rurali - infatti tengono in considerazione la qualità delle cure ospedaliere in termini di infrastrutture e pulizia, ma non giudicano il comportamento del personale.
I racconti dei maltrattamenti e gli abusi sono ancora troppo numerosi. 

11/08/15

L'esercito delle nuove schiave: la testimonianza delle braccianti, sfruttamento e condizioni disumane - le donne sfruttate devono ribellarsi e organizzarsi! MFPR

Due braccianti pugliesi raccontano la loro vita, tra campi e magazzini. 
(di Francesca Buonfiglioli)
In Puglia almeno 40 mila donne lavorano nell'ortofrutticolo.
Anna (il nome è di fantasia) ha 36 anni e due figlie. Lavora nei campi pugliesi da quando ne aveva 14. E ha un solo desiderio: non fare vedere mai alle sue bambine la campagna. Perché la campagna «è bruttissima».

«LE MIE FIGLIE SI MERITANO UNA VITA DIVERSA». Anna sa che il suo lavoro è la bracciante: dalle fragole di primavera all'uva di ottobre, passa la sua vita nei campi e nei magazzini, dove i prodotti sono stoccati.
«Ho sempre fatto questo, e questa resterà la mia vita», racconta a Lettera43.it. «Ma voglio un futuro diverso per le mie piccole perché non vivano quello che ho vissuto io, e non debbano seguirmi sui campi come mi ha costretto a fare mia madre».
E dire che lei si ritiene fortunata. «Molte mie colleghe sono sfruttate e si lamentano per i caporali», dice convinta.
Anna invece è dipendente di un'azienda, ha un contratto e guadagna 28 euro al giorno. Vero, la sua busta paga è più leggera di quella di un uomo, ma non si lamenta. Se non per il fatto che i suoi datori di lavoro, come spesso accade, dichiarano salari giornalieri più alti - 40, 41 euro - e meno giorni lavorati in modo da non incappare in qualche ispezione

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ISPEZIONATE SOLO IL 4,5% DELLE AZIENDE. Rischio che, in Puglia, è basso. Come ha spiegato Giuseppe Deleonardis, segretario regionale di Flai Cgil, nel 2014 i controlli sono stati 1.818 su 40 mila imprese. Nel 55% dei casi è stata denunciata una qualche inadempienza. E di questi l'80% era per lavoro nero.
«Ci svegliamo alle 2 di notte. La caporale passa con il bus alle 3»
Donne al lavoro nei campi.
Maria (altro nome di fantasia), invece, è meno «fortunata». Ha 44 anni, di cui più di 30 passati nei campi.
Le ore di lavoro «dipendono dalla giornata», spiega. Così come il luogo di lavoro che spesso viene comunicato la sera prima.
Si sveglia alle 2, 2 e mezza ogni mattina. Deve essere alla fermata del paese alle 3, quando la caporale la passa a prendere col bus. Vicino a lei siedono molte donne, soprattutto rumene. E qualche uomo.
«La scorsa settimana però», aggiunge, «siamo partite un'ora prima, alle 2 perché dovevamo andare a tagliare l'uva alle porte di Foggia».

IL TRASPORTO A CARICO DELLA LAVORATRICE. E con i chilometri, aumenta anche il prezzo del passaggio. Dai 5, 10 euro arrivano fino a 10, 15, detratti naturalmente dalla paga giornaliera di 36 euro circa.
Si lavora sodo, fino a 10 ore al giorno, contro le 6 e mezzo contrattuali. Di straordinari nemmeno l'ombra.
L'azienda per la quale lavora Maria non possiede terre, ma compra e raccoglie i prodotti. «Non sappiamo nemmeno chi ha il terreno», sorride amara.

IL RICATTO QUOTIDIANO. Lamentarsi, o solo chiedere chiarimenti su orari, contratti e buste paga non conviene: «La caporale trova il modo di punirti. Per esempio non ti fa lavorare per due, tre giorni di fila».
La regola in altre parole è non rompere le scatole e cercare di stare simpatica a chi comanda. Solo così, anche quando il lavoro diminuisce, hai garantito il turno. Altrimenti stai a casa. E addio paga.
Si vive quotidianamente sotto ricatto. Per questo «è quasi impossibile che una bracciante italiana denunci una caporale», precisa Maria, «la voce si spargerebbe in giro, e per lei non ci sarebbe più lavoro».
«Sotto i tendoni a 50 gradi senza acqua»
Molte delle donne sfruttate in Puglia sono rumene.
Chinate a raccogliere fragole o ad acinellare l'uva, le donne lavorano dalle 8 alle 10 ore. Perché dopo il campo, o sotto i tendoni dove la temperatura raggiunge facilmente i 50 gradi, ci si sposta nei magazzini dove si imballano i prodotti.

STRONCATE DALLA FATICA. «Se finisce l'acqua», spiega Maria, «nessuno te la dà. Non si beve e basta». In queste condizioni non stupisce che si muoia. Come è accaduto alla bracciante di San Giorgio Ionico, morta a Nardò il 13 luglio scorso, forse stroncata dalla fatica. Anche se le vere cause del decesso non si conosceranno mai, visto che non è stata chiesta l'autopsia (intanto salgono a tre i braccianti morti nel giro di pochi giorni in Puglia: oltre alla 49enne di Nardò e Mohammed, sudanese, un 52enne tunisino è deceduto martedì in un’azienda agricola di Polignano a Mare).
Finite le ore, si riprende il pullman: un'ora e mezzo, due di strada e si torna a casa. «Dove cerco di sbrigare le faccende domestiche, solo l'essenziale», dice ancora Maria, quasi giustificandosi.

LE MORTI DEGLI ANNI 80. Una vita dura, durissima. Che lei ha cominciato a fare a 11 anni. «Allora le condizioni erano anche peggiori, soprattutto per il trasporto. Negli Anni 80 molti braccianti sono morti in incidenti per arrivare sul posto di lavoro». Le cose sono poi migliorate, ma per poco.
«Adesso siamo tornati indietro. Nonostante le donne non siano più ignoranti come un tempo», aggiunge. «Le nostre mamme avevano una cultura limitata. Ora siamo istruite, molte di noi sonoi diplomate».

«ORA TRA NOI MANCA LA SOLIDARIETÀ». Eppure, paradossalmente, in passato si lottava di più. «C'era un maggiore senso del gruppo, più solidarietà. Adesso ognuna pensa a se stessa, a portare a casa la pagnotta. Se puniscono una di noi lasciandola a casa per due o tre giorni, le altre si voltano dall'altra parte».
La crisi, soprattutto al Sud, ha giocato un ruolo importante. Gli impietosi dati diffusi da Svimez parlano chiaro.

OCCUPAZIONE FEMMINILE AI MINIMI. A fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 64% nell’Europa a 28 in età 35-64 anni, il Mezzogiorno si ferma al 35,6%. Le percentuali sono più preoccupanti se si considerano le under 34: l'occupazione al Sud si ferma al 20,8% contro una media nazionale del 34% (il Settentrione segna un 42,3%) ed europea del 51%.  Per le donne del Sud non ci sono molte alternative. «Siamo costrette ad accettare quello che troviamo, anche a condizioni disumane».
«LO STATO SI È DIMENTICATO DI NOI». «Ci sentiamo abbandonate dallo Stato», mette in chiaro Maria con la voce ferma. «Ogni notte partono centinaia di bus dai paesi della Puglia, e ogni pomeriggio fanno rientro, proprio nell'ora della pennichella, quando tutti - carabinieri e polizia compresi - possono vederci. Ma nessuno alza un dito, nessuno fa qualcosa per fermare questa piaga. Siamo come dei fantasmi».
E si arrabbia anche quando sente il presidente del Consiglio Matteo Renzi accusare i meridionali di piangersi addosso.
«Che venisse a fare il mio lavoro», lo invita, «ma alle stesse condizioni. E anche solo per una settimana».

Tratte e trattative con gli sfruttatori del criminale governo Renzi sulla pelle di 68 giovani donne nigeriane!

Il governo del fascio criminale Renzi si apprestava a rimpatriare 68 giovani nigeriane sbarcate a Lampedusa e rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria. Ragazze che in Libia hanno subito ogni tipo di violenza, rapite dai mercanti del sesso per essere prostituite in Europa. Migranti e donne, doppia discriminazione e doppia violenza!

Donne nigeriane, sventato il rischio del rimpatrio e la consegna nelle mani dei trafficanti

(DI GIACOMO ZANDONINI, per la repubblica)

Grazie all'intervento di avvocati, attivisti e operatori sociali che si è evitato un rimpatrio collettivo, probabilmente già programmato dalle autorità italiane in accordo con l'ambasciata della Nigeria e con Frontex. L'operazione denunciata a Repubblica dall'Associazione A Buon Diritto e dalla cooperativa sociale Be Free 

ROMA - "Papa Francesco ha detto che respingere i migranti è un atto di guerra, per parafrasarlo direi allora che queste donne sono prigioniere di guerra". Commenta così Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, la vicenda di 68 giovanissine nigeriane, sbarcate a Lampedusa e trasferite in pochi giorni, due settimane fa, al Centro di Identificazione e Espulsione di Ponte Galeria, nella periferia di Roma. Si tratta di ragazze sole, appena maggiorenni e provate da viaggi estenuanti, il cui destino rischiava di cambiare improvvisamente direzione, riportandole nel paese da cui erano fuggite.

Avvocati e attivisti in soccorso. E' grazie all'intervento di avvocati, attivisti e operatori sociali che si è evitato un rimpatrio collettivo, probabilmente già programmato dalle autorità italiane in accordo con l'ambasciata della Nigeria. Un volo coordinato dall'agenzia Frontex, che le avrebbe riconsegnate nelle mani di aguzzini o portate comunque in situazioni di grande rischio. L'operazione è stata denunciata a Repubblica dall'Associazione A Buon Diritto e dalla cooperativa sociale Be Free, che a Ponte Galeria svolgono attività di consulenza e informazione.

Un segnale preoccupante. "Cose del genere - spiegano da Be Free - non si vedevano dal 2009-2010, all'epoca dei famosi respingimenti in mare per cui l'Italia è stata poi condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo". Anche allora, sottolineano però, "a Ponte Galeria non arrivavano più di venti donne alla volta". Un segnale preoccupante che, secondo Gabriella Guido della campagna LasciateCIEntrare, reduce da una visita lampo nel centro, "conferma come i Cie siano luoghi di negazione continua del diritto".

Tre mesi di inferno. Le donne hanno raccontato di essere partite tre mesi fa dalla Nigeria e di aver viaggiato fino alla Libia, dove molte avrebbero subito violenze, sarebbero state rapite, incarcerate e costrette a lavori forzati. Una di loro, a quanto riportato dall'operatrice di Be Free Francesca De Masi, dice di essere stata accompagnata da una signora dalla Nigeria a Tripoli, per poi essere consegnata a un uomo che l'ha stuprata, segregata in casa e costretta a prostituirsi. Uno sfruttamento senza sosta, terminato solo con la partenza via mare. "Tutte - spiega però De Masi - dicono di non aver pagato niente per il viaggio fino alla Libia né per imbarcarsi verso l'Italia, segnale chiaro che c'è un'organizzazione criminale che tiene le fila di tutto e che aspetta le donne per sfruttarle in Italia o in altri paesi europei". Gran parte delle giovani sono arrivate a Lampedusa il 17 luglio e portate subito nel Centro di primo soccorso e accoglienza, mentre una decina è sbarcata sull'isola il 22 luglio. E' a quel punto che sono state trasferite in aereo a Roma e chiuse nel Cie.

Persone senza tutela. "Ho capito subito - spiega l'avvocato Jacopo Di Giovanni, che rappresenta 15 delle 68 donne - che un addetto del consolato della Nigeria aveva incontrato le ragazze poche ore dopo l'arrivo al Centro, dando il via libera al rimpatrio". L'operazione è stata sventata all'ultimo minuto, spiegando alle giovani che avrebbero potuto chiedere asilo, un'opzione poi scelta da tutte. "Formalizzare la richiesta d'asilo è stato però molto lungo - spiega Di Giovanni - e ad oggi solo un terzo delle mie clienti ha ottenuto i primi documenti". A preoccupare l'avvocato è anche un decreto di espulsione "emesso ma mai consegnato alle interessate, tanto che non so dove depositare il ricorso contro il provvedimento".

Un rischio automatico. Un segnale ulteriore della mancanza d'attenzione verso donne destinate, nella gran parte dei casi, a rovinarsi la giovinezza sui marciapiedi d'Europa. "Per le ragazze nigeriane il rischio di sfruttamento è quasi automatico, e se rimpatriate possono essere facilmente rintracciate dai trafficanti e subire nuove violenze, possibile dunque - si chiede Francesca De Masi - che le istituzioni non abbiano pensato di proteggerle?".

Tanti "copioni" simili. Trafficanti o scafisti? L'esperienza delle donne destinate al mercato del sesso segue copioni tragicamente simili: ricattate fisicamente e psicologicamente dai trafficanti, di cui spesso non conoscono la verà identità, vengono fatte viaggiare gratis dall'Africa all'Europa e, una volta arrivate, gli si dice che hanno un debito di diverse decine di migliaia di euro. Per rimborsarlo, dovranno prostituirsi per anni.

"Il paradosso delle Procure sisicliane". "La legge anti-tratta italiana prevede una protezione delle vittime, tramite il disposto dell'articolo 18 - spiega Francesca De Masi - ma oggi assistiamo a un paradosso: le procure siciliane assegnano la protezione a chi denuncia gli scafisti, mentre le vittime della tratta, come queste donne, rischiano di tornare nelle mani dei trafficanti". Uno stravolgimento della norma, che finirebbe per assimiliare "la tratta, che è un reato contro la persona, da accostare alla riduzione in schiavitù, al traffico di persone, reato contro lo stato, finalizzato non a sfruttare ma a traghettare i migranti da una sponda all'altra".

Il campanello d'allarme nei dati. Anche i dati fanno suonare un campanello d'allarme: nel 2015 si è infatti triplicato, secondo l'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, il numero di nigeriane arrivate via mare rispetto allo stesso periodo del 2014. "I trafficanti - sostiene però De Masi - non stanno sulle barche, ma in Nigeria, Libia e Europa e l'unico modo per colpirli è proteggere le vittime e portarle a collaborare con la giustizia". Non, di certo, rimpatriarle in tempi rapidissimi.

Profughi nei Cie. Le prime donne saranno ascoltate dalla Commissione per l'Asilo dopo Ferragosto, ma per la coordinatrice di LasciateCIEntrare Gabriella Guido, "la situazione di paura in cui vivono, dentro una struttura completamente inadeguata e senza un sostegno legale e sociale, rischia di rendere inefficace anche la richiesta d'asilo". Riaprendo definitivamente l'ipotesi del rimpatrio e la riconsegna delle ragazze nelle mani di sfruttatori senza scrupoli. Una preoccupazione condivisa dal senatore Manconi, che ha parlato a Repubblica di "una tragedia irreparabile, in cui queste donne sono due volte vittime: dei trafficanti e del sistema detentivo dei Cie, mentre avrebbero bisogno di un trattamento completamente diverso".

Ai Cie associata l'idea di pericolosità sociale. A sconcertare Manconi è poi, in generale, "l'intenzione ormai chiara del governo di usare i Cie per i profughi, ampliando in qualche modo l'idea di una pericolosità sociale di queste persone". E mettendo in un angolo la speranza che i Centri di Identificazione e Espulsione, "luoghi di detenzione, fuori dalla legge e dal tempo, fossero definitivamente chiusi". Una strada già intrapresa dalla prefettura di Trapani, che intende trasformare il Cie della provincia, uno dei cinque in Italia, in "hotspot" per migranti appena sbarcati, raddoppiandone la capienza.

Facebook chiude il gruppo delle donne-lavoratrici della Coop

Di Francesco Iacovone

Facebook, la piattaforma sociale di Mark Zuckerberg, è inflessibile e le cassiere da oggi hanno un motivo in più per sentirsi sole. Con poche e semplici parole, Donna Coop e le sue colleghe determinate e “terribilmente incazzate”, erano riuscite nell’intento di evidenziare tutte le contraddizioni di uno degli spot pubblicitari più azzeccati degli ultimi anni, quello di Luciana Littizzetto, allora testimonial Coop.
In realtà i social media, a mio avviso, amplificano di per sé quello stato di solitudine che viviamo tutti noi, illudendoci del contrario. Ma Donna Coop era divenuta un mezzo per veicolare informazioni tra le lavoratrici del settore, un profilo che aveva accresciuto la sua “autorevolezza” con il tempo. Purtroppo Facebook non fa sconti a nessuno e non vede oltre il rigido regolamento, non si domanda il perché di tale “nome”.
Donna Coop è un avatar, usato inizialmente da una delle autrici della lettera scritta da un manipolo di donne, determinate a portare a galla la realtà ben diversa dall’ambiente “accattivante e simpatico” descritto negli spot della Coop, interpretati dalla “Lucianina” nazional-popolare.
Quell’avatar è stato usato da altre cassiere della Coop, da altre delegate che si sono alternate al PC e ha permesso la creazione del gruppo facebook L’insostenibile solitudine della cassiera, nato da un post e divenuto luogo di scambio di chi vive la solitudine di un centro commerciale.
Quell’account ora è bloccato e forse lo resterà. Caro Facebook, caro Mark Zuckerberg, dietro quell’avatar si nascondeva chi non ha diritto di parola e di critica,  chi deve lavorare per quattro soldi ed in silenzio, pena il licenziamento… perché si sa che se un lavoratore parla viene licenziato.
A te, caro ragazzo americano che hai fatto una fortuna, dedico la lettera scritta da Donna Coop, da tante Donna Coop che da oggi, grazie alla tua Policy, hanno una voce in meno per gridare il loro disagio:
Cara Luciana, lo sai cosa si nasconde dietro il sorriso di una cassiera che ti chiede di quante buste hai bisogno? Una busta paga che non arriva a 700 euro mensili dopo aver lavorato sei giorni su sette comprese tutte le domeniche del mese. Le nostre famiglie fanno una grande fatica a tirare avanti e in questi tempi di crisi noi ci siamo abituate ad accontentarci anche di questi pochi soldi che portiamo a casa. Abbiamo un’alternativa secondo te? Nei tuoi spot spiritosi descrivi la Coop come un mondo accattivante e un ambiente simpatico dove noi, quelle che la mandano avanti, non ci siamo mai. Sembra tutto così attrattivo e sereno che parlarti della nostra sofferenza quotidiana rischia di sporcare quella bella fotografia che tu racconti tutti i giorni. Ma in questa storia noi ci siamo, eccome se ci siamo, e non siamo contente. Si guadagna poco e si lavora tanto. Ma non finisce qui. Noi donne siamo la grande maggioranza di chi lavora in Coop, siamo circa l’80%. Prova a chiedere quante sono le dirigenti donna dell’azienda e capirai qual è la nostra condizione. A comandare sono tutti uomini e non vige certo lo spirito cooperativo. Ti facciamo un esempio: per andare in bagno bisogna chiedere il permesso e siccome il personale è sempre poco possiamo anche aspettare ore prima di poter andare. Il lavoro precario è una condizione molto diffusa alla Coop e può capitare di essere mandate a casa anche dopo 10 anni di attività più o meno ininterrotta. Viviamo in condizioni di quotidiana ricattabilità, sempre con la paura di perdere il posto e perciò sempre in condizioni di dover accettare tutte le decisioni che continuamente vengono prese sulla nostra pelle. Prendi il caso dei turni: te li possono cambiare anche all’ultimo momento con una semplice telefonata e tu devi inghiottire. E chi se ne frega se la famiglia va a rotoli, gli affetti passano all’ultimo posto e i figli non riesci più a gestirli. Denunciare, protestare o anche solo discutere decisioni che ti riguardano non è affatto facile nel nostro ambiente. Ci è capitato di essere costrette a subire in silenzio finanche le molestie da parte dei capi dell’altro sesso per salvare il posto o non veder peggiorare la nostra situazione. Tutte queste cose tu probabilmente non le sai, come non le sanno le migliaia di clienti dei negozi Coop in tutta Italia. Non te le hanno fatte vedere né te le hanno raccontate. Ed anche a noi ci impediscono di parlarne con il ricatto che se colpiamo l’immagine della Coop rompiamo il rapporto di fiducia che ci lega per contratto e possiamo essere licenziate. Ma noi non vogliamo colpire il marchio e l’immagine della Coop, vogliamo solo uscire dall’invisibilità e ricordare a te e a tutti che ci siamo anche noi. Noi siamo la Coop, e questo non è uno spot. Siamo donne lavoratrici e madri che facciamo la Coop tutti i giorni. Siamo sorridenti alla cassa ma anche terribilmente incazzate. Abbiamo paura ma sappiamo che mettendoci insieme possiamo essere più forti e per questo ci siamo organizzate. La Coop è il nostro posto di lavoro, non può essere la nostra prigione. Crediamo nella libertà e nella dignità delle persone. Cara Luciana ci auguriamo che queste parole ti raggiungano e ti facciano pensare. Ci piacerebbe incontrarti e proporti un altro spot in difesa delle donne e per la dignità del lavoro. Con simpatia, un gruppo di lavoratrici Coop

Perchè Paola è morta nei campi

Parla un amica di Paola di 49 anni, la bracciante di San Giorgio Jonico (TA) morta il 13 luglio nelle campagne di Andria (FG).
"Soprattutto in campagna le donne sono sfruttate. Paola è morta per sfamare la famiglia e crescere bene i figli. Anche io sono stata sfruttata. In campagna tagliavo e imballavo, facevo il lavoro per due. Mi sono sentita discriminata: 25 euro al giorno, metà di quanto spetta per legge. Caricati sugli autobus dai caporali, fino a Metaponto in Basilicata. Ho lavorato ai pomodori, alle verdure, arance mandarini, uva. Ho fatto l'acinino. Come Paola, che sotto quel tendono ha lasciato la vita.
Raccogliere pomodori, per esempio, è faticoso; piegarsi sotto il sole, strapparli con forza alla terra.
A Paola perchè non è stata fatta l'autopsia? Sapevo che Paola stava facendo delle punture perchè aveva dolore al collo e si sentiva meglio. In realtà lei non riposava mai. Per sfamare la famiglia, i figli, lavorava anche il pomeriggio al ritorno da Andria, qui nelle campagne di San Giorgio.
La mattina in cui è morta mi hanno raccontato che aveva ildolore al collo e qualcuno che andava con lei  in campagna le avrebbe detto: oggi non lavorare. paola avrebbe risposto: "Cosa faccio, perdo la giornata?".
Quelli che lavorano come lavorava Paola dovrebbero prendere 52 euro al giorno; mi disse che ne prendeva poco più della metà e arrotondava il pomeriggio per altri 15 euro.... E' vero, non c'è lavoro. Qui, per sfamarci, è rimasta solo la terra".

Dall'opuscolo del Mfpr sulla "condizione di (in)sicurezza delle lavoratrici: una realtà delle donne di cui si parla poco":
"...Provate a chiedere l’età alle braccianti e l’80% delle volte, soprattutto tra le donne non giovanissime,
diranno un’età che è inferiore a quella che sembra guardandole in faccia.
Alla fatica si aggiunge il sole o il freddo che rovina la pelle. Ma non basta, le lavoratrici rischiano altre malattie, anche respiratorie, anche
dell’apparato riproduttivo per le sostanze chimiche tossiche usate in agricoltura.
Quando troveremo questo attacco alla salute delle donne, continuo, lento, ma gravissimo, nelle tabelle ufficiali?".

A SETTEMBRE L'MFPR FARA' UN INCONTRO A FOGGIA CON BRACCIANTI, ITALIANE E IMMIGRATE, VERSO IL NUOVO SCIOPERO DELLE DONNE.

07/08/15

la "buona scuola" di Renzi contro le lavoratrici... verso il nuovo sciopero delle donne

Riportiamo sotto la lettera di una docente precaria del Sud che sintetizza bene, purtroppo, la condizione in cui si stanno trovando diversi precari in questi giorni in merito alla questione delle assunzioni in ruolo, tanto proclamate dal governo scellerato Renzi/Giannini,  che con un meccanismo perverso, a dir poco, sta dividendo i docenti in fasi di assunzioni con le vecchie regole e in fasi di assunzioni con nuove regole penalizzanti  discriminando i docenti nel loro diritto di passare di ruolo dopo tanti anni di precariato. 
Da questa penalizzazione e discriminazione poi ad essere colpite sono soprattutto le donne, la maggioranza della popolazione lavorativa della scuola, che in tante hanno oggettive difficoltà a lasciare la propria residenza, città, regione... (solo dalla Sicilia i docenti che possono essere assegnati fuori sede sono 15.000) per trasferirsi in altre città a chilometri di distanza perchè essendo anche mogli, madri... non possono lasciare o portarsi con sè i figli, per via anche di difficoltà economiche, visti i costi che comporta un trasferimento dall'oggi al domani in un'altra residenza... e non si tratta di "piagnistei" come dice l'arrogante Renzi ma di difficoltà vere, concrete, immediate, cui questo Stato  non fa fronte e  maggiormente quando questo riguarda la maggioranza delle donne che sempre più devono accollare su di sè il lavoro di cura. 

Lettera di una mamma - Insegnante che non puo' perdere la sua famiglia per il piano assunzioni scuola.

Mi chiamo Alessandra, abito a Messina e sono precaria nella scuola primaria da ben 26 anni.
Dopo tantissimi sacrifici oggi la scuola mi chiede di fare una domanda dove dovro'ò elencare tutte le province d'Italia...
Le province nelle quali potro'ò essere mandata a lavorare. Ho 52 anni, un figlio autistico, disabile al 100%, per il quale ho lottato e lotto ancora tutti i giorni percheé gli vengano riconosciuti i suoi diritti.
A gennaio mio marito ha avuto un infarto.
Ora mi viene chiesto... anzi mi viene imposto!... di fare le valige e abbandonare la mia famiglia.
Ho chiesto di potermi avvalere della 104 nella domanda e mi è e' stato negato.
Ho una figlia di 23 anni: non potraà piu'ù costruirsi un futuro per prendere il mio posto?
Che scotto dobbiamo pagare perche'é io possa lavorare? Non ho mai preteso la scuola accanto, mi basterebbe rimanere in provincia. Oggi il mio paese mi ha tolto il diritto di essere lavoratrice, moglie e sopratutto madre.
Tutto questo e'è inaccettabile!

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Intervistando in alcune scuole  lavoratrici docenti di ruolo è emersa la preoccupazione e la rabbia nei riguardi di una riforma  che di fatto porraà tutti i lavoratori della scuola in una condizione di precarieta', nonostante il ruolo, per via del nuovi organici previsti secondo gli ambiti territoriali.

Secondo la riforma del governo infatti, che  abolisce di fatto la cosiddetta sede di titolarità,  gli eventuali  docenti soprannumerari per esempio   non potranno più' fare la domanda di trasferimento in un'’altra scuola ma  concorreranno negli elenchi territoriali sottoposti in pratica ai diktat di selezione dei presidi neo-padroni.

“ "E se nessun preside ci "sceglie" che fine faremo dopo tanti anni di ruolo?” “ Questa riforma e'è un abominio! dovremo augurarci di non essere mai in soprannumero, cosa alquanto improbabile, o saremo costrette a subire condizioni di lavoro magari difficili, visto che non avremo piu' la possibilita' di potere chiedere un’'altra sede secondo le graduatorie di istituto interne che fino ad oggi sono state vigenti ma che saranno abolite..."


Ma in diverse alla fine concordavano dicendo“ "siamo scese tutte a scioperare contro la riforma ma il governo se n’è' fregato...… ci auguriamo che da settembre la mobilitazione continui… non si puo' restare a subire…..."

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Da Blasting News > News lavoro 

 Riforma scuola, la mobilita'chi avra'la titolarità di sede tra le assunzioni 2015/16? Ma dal prossimo a.s. i docenti non potranno più chiedere il trasferimento

Cambia la mobilità con la riforma della scuola varata dal Governo Renzi. Dalla lettura del maxiemendamento approvato dal Senato lo scorso 25 giugno, emerge che la titolarità di cattedra sarà garantita per il prossimo anno scolastico ai vecchi insegnanti, ovvero a quelli che sono già di ruolo, ed ai circa 50 mila docenti (su 102.734 precari) che beneficeranno del piano straordinario delle assunzioni previsto con la Buona scuola entrando a far parte dell'organico di diritto. Dunque, i candidati che verranno assunti nel prossimo settembre con le vecchie regole e saranno titolari di cattedra sulle classi di concorso delle loro materie di insegnamento, avranno diritto a mantenere la sede di titolarità.

Ma da questa sede non potranno più spostarsi a partire dall'anno scolastico 2016/17, anche in coincidenza di due importanti effetti della riforma: in primo luogo, la cattedra assegnata provvisoriamente a settembre 2015, diventerà, presumibilmente, definitiva. Per i docenti che faranno parte dell'organico di diritto dall'anno scolastico 2015/2016, infatti, il diritto a mantenere la sede di titolarità sarà effettivo nel momento in cui avranno ottenuto la sede definitiva: le amministrazioni scolastiche avranno tempo fino al 1° settembre 2017 per l'assegnazione.

In secondo luogo, sarà proprio dall'anno scolastico 2016-17 che la riforma della scuola terminerà la sua fase transitoria per essere applicata integralmente. E, dunque, si seguirà la regola prevista dal disegno di legge numero 1934, secondo la quale i prof, non potendo più chiedere il trasferimento dalla sede dove sono titolari di cattedra ad un'altra sede, non potranno, di conseguenza, nemmeno ambire al trasferimento con le assegnazioni provvisorie e le utilizzazioni che, in ogni caso, dovrebbero essere applicate per l'ultima volta con le vecchie regole nel prossimo anno scolastico.
Dopodiche' la richiesta di trasferimento comportera' la perdita della titolarita' e la reimmissione dei richiedenti negli elenchi territoriali.

Titolarita' di sede per docenti del potenziamento e docenti in esubero: cosa dice il Ddl scuola

Il discorso è diverso per i docenti che verranno assunti e che faranno parte dell'organico dell'autonomia e per i prof che andranno in esubero o in soprannumero nell'anno scolastico 2016-17: non avendo una sede di titolarità, andranno a concorrere negli elenchi territoriali.

03/08/15

San Giorgio - Taranto: Paola è morta sul lavoro nei campi per 30 euro al giorno!

A settembre le lavoratrici del mfpr di Taranto realizzeranno un incontro con alcune braccianti e immigrate a Foggia, per preparare insieme un nuovo sciopero delle donne, per dire BASTA A QUESTE CONDIZIONI DI LAVORO!
Perché le donne sfruttate vanno organizzate, perché anche la morte di Paola serva alla ribellione delle lavoratrici più sfruttate, ricattate e oppresse.
MFPR - Taranto (mfpr.naz@gmail.com)

«Morire a lavoro in un campo di uva e diventare subito un fantasma, senza che trapeli notizia per settimane. Il cuore di Paola, 49 anni, bracciante di San Giorgio Jonico si è fermato la mattina del 13 luglio, sotto un tendone per l’acinellatura dell’uva, nelle campagne di Andria, in contrada Zagaria».
«lunedì 13 Paola è uscita da casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare a lavoro ed è tornata in una cassa da morta. È stata sepolta il giorno dopo, sembra senza autopsia e con il nullaosta “telefonico” dato dal magistrato di turno. Il pm non si è recato sul posto perché, riferisce la polizia di Andria, il parere del medico legale è che si sia trattato di una morte naturale, forse un malore per il caldo eccessivo».
Ancora un’altra morte nei campi, che precede quella di Mohammed, il bracciante sudanese vittima della fatica e dei caporali a Nardò.

... le donne, diradano gli acini per fare più belli i grappoli di uva da tavola, scartando i chicchi piccoli che impediscono agli altri di crescere. Le braccianti stanno in equilibrio su cassette di legno per raggiungere gli alti filari di uva. Forse Paola, accusando un malore, è caduta da una di quelle cassette. Oppure forse, come hanno raccontato alcune compagne di lavoro, Paola era uscita fuori dal tendone poco prima di accasciarsi al suolo. Solitamente, l’acinellatura è tra i lavori pagati meno in agricoltura: 27-30 euro a giornata, nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52. Paola non si sarebbe aspettata di morire così, dopo 15 anni di lavoro nei campi, dall’alba fino a quando fa buio. Sembra che Paola non avesse diritto ad una pensione, perché non ne aveva maturato i diritti e senza la disoccupazione, perché le aziende per cui aveva lavorato in precedenza non le avevano versato tutte le giornate di lavoro all’Inps. Lei aveva rinunciato a chiedere il rispetto dei suoi diritti. Temeva di non riuscire più a trovare lavoro se avesse minacciato un’azione legale contro i padroni delle aziende. Sicuramente Paola si sentiva forte. Si alzava alle 2 di notte a San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, arrivava sui campi di Andria alle 5, rientrando nel primo pomeriggio a casa, dopo circa 5 ore di viaggio tra l’andata e ritorno»