Il 25 settembre in un canale di scolo nella periferia nord di Tunisi era stato scoperto il corpo di Rahma Lahmar, una giovane donna di 29 anni scomparsa quattro giorni prima, è stata derubata, stuprata e infine sgozzata da un sospetto di 30 anni che è stato arrestato.
L’efferatezza di tale femminicidio ha provocato un’ondata di sdegno
nel paese e da più parti è stata evocata la condanna alla pena di morte,
prevista dalla legislazione tunisina ma rimasta inapplicata ormai dal
1991.
Sono state organizzate anche manifestazioni invocando la pena di
morte per l’assassino violentatore largamente approvate tra le masse, lo
stesso presidente della repubblica cavalcando l’onda popolare si è
espresso a favore di tale soluzione.
Una società maschilista, patriarcale in cui la cultura dominante è
impregnata di valori retrogradi e semifeudali relega la donna in secondo
piano, nonostante la propaganda di regime innalzi la donna tunisina
dipingendola pari all’uomo nei diritti e nei doveri repubblicani, in
realtà questo è solo l’ultimo di una lunga serie di femminicidi e
violenze e discriminazioni a danno delle donne nel paese.
La giovane Rahma come tante altre donne della capitale e delle città
costiere del Sahel tunisino, dopo una giornata di lavoro per rientrare a
casa è costretta a percorrere qualche chilometro a piedi lungo una
superstrada isolata per raggiungere la più vicina fermata dove poter
prendere un autobus o un louage (taxi collettivo).
Queste condizioni oggettive che si aggiungono a quanto detto prima, mettono doppiamente a rischio una donna non solo di essere derubata ma di subire violenza e persino essere assassinata.
È comprensibile
che agli occhi del popolo violentatori e stupratori non meritino di
vivere ma è anche vero che non bisogna fare illudere le masse popolari
che l’esecuzione di tali individui risolva il problema della violenza
contro le donne che invece è strutturale in questo sistema.
Tra i pochi che hanno individuato che il problema è strutturale e non meramente repressivo, è stata la Coalition tunisienne contre la peine de mort che
in controtendenza con il clima forcaiolio dei giorni scorsi ha puntato
il dito contro le responsabilità di Stato e governo che oltre a non
garantire la sicurezza dei cittadini, non risolvono i problemi economici
e sociali contribuendo al perpetuarsi di criminalità e violenza diffusa
che di certo non cadono dal cielo. Per bocca del proprio presidente,
Chokri Latif è stato ribadito che la pena capitale, in un sistema
borghese dove anche la giustizia è di classe, non rappresenta un
deterrente ma un’azione propagandistica da parte del potere illudendo le
masse che si stia trattando il problema.
Anche in Algeria nelle ultime settimane si sono verificati
femminicidi efferati, si contano 40 donne uccise dall’inizio dell’anno,
in un crescendo che assume la forma di una vera e propria guerra contro
le donne di “bassa intensità”, la risposta delle donne e delle masse
popolari algerine è stata però differente rispetto al piccolo paese
confinante.
Ciò che ha spinto alla mobilitazione è stata la vicende della giovane
Shaima che nel 2016 all’età di soli 16 anni era stata violentata e
aveva denunciato il violentatore che era stato condannato a 3 anni di
carcere. Lo scorso primo ottobre il violentatore ormai libero ha
avvicinato Shaima portandola in un posto isolato nella città di Bou
Merdes, e dopo averla violentata e uccisa ne ha bruciato il corpo.
Dopo pochi giorni, il 7 ottobre, un’altra donna è stata ritrovata
carbonizzata in una foresta nei dintorni della città di Setif,
dall’autopsia è risultato che è stata bruciata viva.
I collettivi femministi algerini e le donne in generale hanno
organizzato manifestazioni in numerose città del paese e in particolare
ad Algeri, davanti la sede dell’Università di Algeri (dove spesso il
movimento femminista si dà appuntamento) a Bejaia (organizzato dal
Collectif de Femme Libre de Bejaia), Oran, Costantine (organizzato dal
Collectif de Femme de Constantine) e Tizi Ouzou.
Il sit in di Algeri è stato disperso dopo 15 minuti dalle forze della
repressione del regime militare reazionario algerino. Questa
repressione si iscrive all’interno di una vasta ondata repressiva con
decine e decine di militanti e manifestanti arrestati nelle ultime
settimane ma è un chiaro segnale che il vecchio potere reazionario è
parte attiva della guerra contro le donne e che nessuna giustizia c’è da
aspettarsi dalle istituzioni.
Il vecchio Stato algerino burocratico e compradore ha approfittato
della pandemia e della conseguente “ritirata a casa” del grande
“movimento (hirak) contro il sistema” per colpire duro sugli attivisti e organizzatori più attivi di questo movimento popolare e di massa.
Nella giornata di ieri collettivi femministi algerini in Francia
hanno manifestato a Parigi davanti la sede dell’Ambasciata algerina.
Il movimento femminista algerino ha ripreso vigore durante l’Hirak
(le manifestazioni contro il sistema ovvero contro lo Stato algerino
che erano in corso ormai da quasi un anno e che solo la pandemia ha
potuto fermare, perlomeno momentaneamente) conducendo anche una
battaglia interna allo stesso Hirak in cui alcuni uomini che
partecipavano alle manifestazioni volevano soffocare tale protagonismo
femminile accusando le donne “di voler dividere il movimento contro il
sistema, iniziando una battaglia contro gli uomini” c’erano state anche
aggressioni davanti l’Università di Algeri da parte di manifestanti
uomini ai danni di manifestanti donne.
Ma il movimento femminista algerino, forse non a caso, ha resistito
ad attacchi “interni” ed esterni ed è quello che sta meglio resistendo a
questa ondata repressiva mantenendo il filo rosso dell’Hirak.
Nessun commento:
Posta un commento