06/01/20

Quando lo stupratore è un ‘compagno’ - Riflessioni su potere e silenzio, violenza e castigo

Da bodypolitics.noblogs.org
In una città che non si può dire, in un centro sociale che non si può dire, durante un convegno indetto da una rete che non si può dire, in un mese del 2019, una compagna è stata stuprata da un “compagno.”
Non è la prima volta che succede un fatto di questo tipo. E la triste realtà di una violenza esercitata da una persona politicamente accreditata come ‘compagno’ si affolla di obiezioni, di se e di ma. Le diverse versioni dei fatti si accavallano, c’è chi minimizza. E invece di appurare la verità, si sceglie il silenzio, senza capire quanto sia necessaria una gestione politica immediata. Si dice che l’ignobile individuo ‘è stato allontanato’ – come se questo bastasse – ma dopo diversi mesi non è ancora pubblico il suo nome, lui può ricominciare indisturbato da un’altra parte. E si procrastina la messa in atto di percorsi autocritici del maschile dominante – e di urgenti contromisure di genere volte ad evitare che queste cose succedano ancora anche nei nostri ambiti, nei gruppi di cambiamento sociale: siamo movimenti meravigliosamente complicati, che si spendono generosamente affinché un altro mondo sia possibile – se non ci interroghiamo con forza e trasparenza su ciò che ci attraversa, perdiamo credibilità politica e sociale.
Per chi vuole cambiare il mondo, i panni sporchi non si possono lavare in famiglia. Ci vuole coraggio anche in questo.
Sulla violenza tra le nostre fila
Solitamente non ammessa – “i compagni non fanno queste cose”, “non scherziamo”, “sarà stato un malinteso” – quando diventa innegabile l’avvenuta molestia o violenza ai danni di una compagna, molti/e tendono a ‘sdrammatizzare’, a sminuire o a smentire. Si dice che uno stupro è uno stupro a prescindere da dove avviene – “se fosse successo in un parcheggio a qualche chilometro di distanza dal centro sociale, sarebbe forse stato diverso”? Cosa cambia tra essere abusate sessualmente in casa propria, in una discoteca o nella sede di un collettivo?
Certamente lo stupro come fatto in sé è uguale – ma che avvenga in ambiti di movimento, in gruppi che lottano per il cambiamento sociale, questo per me è eticamente e politicamente ancor più inaccettabile – e credo di non essere l’unica a pensarla in questo modo. Il problema da affrontare riguarda il livello di consapevolezza delle persone che frequentano gli spazi dei movimenti – nei quali spesso ed erroneamente si pensa che non sia necessario dotarsi di regole condivise, di certe prassi anti-eteropatriarcali/antirazziste/antibinarie e di prevenzione della violenza. L’agibilità politica e la sicurezza delle compagne di ogni età e provenienza nei nostri ambiti, sono messe costantemente in pericolo dell’omissione politica di cui sopra, dalla disattenzione e talvolta dall’ignoranza su questi temi.
Talvolta si dà la colpa all’uso di droghe che aumentano l’aggressività come la cocaina (un tempo era la droga dei fascisti!) o all’ubriachezza diffusa o ad entrambe. Sicuramente le sostanze fanno la loro parte, ma non sono la causa principale dello stupro, che va ricercata in relazioni patriarcali e simbolicamente violente che ancora permangono tra le nostre fila, nei movimenti, nelle soggettività che si esprimono.
Si dice che è una questione “ingarbugliata”, si sottolinea l’incertezza su come si siano davvero svolti i fatti. E invece di tentare di fare chiarezza ed appurare la verità, si mette tutto a tacere – talvolta pensando che il problema sia risolvibile discutendone all’interno di un ambito ristretto – ovvero nel gruppo o nel coordinamento in questione , che ha inconsapevolmente coltivato proprio quelle relazioni di potere che hanno portato allo stupro. E che a fatto avvenuto crede di fare il proprio interesse occultando l’accaduto.
“Li hanno visti litigare, forse è stata violenza fisica ma non sessuale”. Come se una cosa escludesse l’altra – o che non possano avvenire in sequenza, come succede nei casi di abuso domestico tra marito e moglie: prima lui la pesta, e poi in modo più o meno forzoso ha un rapporto sessuale con lei (nella versione di lui “abbiamo litigato, ma poi fatto la pace” …).
Mi confronto con il triste problema dei “compagni” che usano la violenza contro le compagne da decenni. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato nel 1975, al convegno nazionale delle donne di Lotta Continua. Una compagna di Torino che si chiamava Laura come me, riccioli biondi e un camicione color ciclamino, raccontava di aver subito un assalto sessuale da parte di un “compagno” sul treno di ritorno da una manifestazione a Roma. Qualcuna le disse di non lamentarsi – “Vabbé non c’è riuscito …” E lei giustamente rispose “ma io non voglio dovermi difendere anche da un compagno!”. Sono passati 45 anni, e dopo tutto questo tempo di lotta femminista devo constatare che ancora abbiamo questi problemi anche coi compagni.
Episodi come questo – nel contesto di un sessismo imperante (di allora e di ancora) portò alla creazione di sezioni separate di Lotta Continua – sia perché le compagne volevano avere un ambito di elaborazione autonoma (a quei tempi non ero d’accordo, pensa un po’ … non mi sembrava necessario!) ma soprattutto perché le donne della sinistra extraparlamentare intendevano marcare una differenza anche etica nella lotta “rivoluzionaria”, nel fare politica in generale e in tutto ciò che riguarda le relazioni con stato e potere. Negli anni 70 si stabilì con forza che le questioni ‘personali’ non dovevano più essere considerate fatti privati ma nodi politici. Quella lezione, che ha positivamente influenzato fasce della società civile, fatica ad essere pienamente compresa e praticata da compagni/e ancora oggi – ovunque, e non solo nelle aree considerate ‘arretrate’ dei sud. Continua a leggere su bodypolitics.noblogs.org

Nessun commento: