DALLA REPUBBLICA
Così metà paga finisce al caporale
di RAFFAELLA COSENTINO
TARANTO – Alle tre di notte le donne del Brindisino e
del Tarantino sono già in strada. Indossano gli abiti da lavoro e hanno
in mano un sacchetto di plastica con un panino. Nei punti di raccolta,
agli angoli delle piazze, alle stazioni di benzina, aspettano il
caporale che viene a prenderle con l’autobus gran turismo per portarle
sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con la
richiesta di prestazioni sessuali. Sono soprattutto italiane, più
affidabili, ma soprattutto più “mansuete” delle lavoratrici straniere,
protagoniste in passato di proteste e denunce.
Per costringere le italiane al silenzio non servono violenze fisiche.
Basta la minaccia “domani resti a casa”. “I proprietari dei pullman
sono i caporali. È a loro che ci rivolgiamo per trovare lavoro in
campagna o nei magazzini che confezionano la frutta”, racconta Maria,
nome di fantasia, che ha 24 anni e lavora sotto i caporali da quando ne
aveva 16. Secondo le stime del sindacato Flai Cgil,
sono 40mila le braccianti pugliesi vittime dei caporali italiani, che
in molti casi hanno comprato licenze come agenzie di viaggio, riuscendo
così ad aggirare i controlli.
Il reclutamento. “Nei paesi ci sono delle persone,
generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi vuole
lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui – racconta
Antonietta di Grottaglie – Il caporale decide dove mandare a lavorare le
braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non
avere uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono
assoggettare più facilmente”. Antonio, altro nome di fantasia, è ancora
più esplicito: “Non vogliono stranieri, il motivo è che loro si
ribellano e gli italiani no: ci sentiamo gli schiavi del terzo
millennio, ci hanno tolto la dignità”.
Le italiane sfruttate per la fragola “top quality”. “La
donna si presta di più a un lavoro piegato di tante ore – spiega un
produttore agricolo che assume circa 60 operaie nelle sue serre di
Scanzano Jonico – Io ho quasi tutte italiane, andiamo a prendere la
manodopera in Puglia, perché quella locale non basta. In tutta Scanzano
esistono 600 ettari di coltivazioni di fragole. A 6 donne a ettaro fanno
3600 braccianti donne”. Ci sono rumeni che si propongono per la
raccolta, ma non vengono quasi mai presi in considerazione. “La fragola è
molto delicata – dice Teresa – facilmente si macchia e diventa
invendibile, per questo servono le donne a raccoglierla nelle serre, con
la temperatura che raggiunge i 40 gradi”. Tra Scanzano, Pisticci e
Policoro si produce la fragola Candonga, brevettata in Spagna e
diventata un’eccellenza molto apprezzata sul mercato perché è più grande
e ha una lunga durata. Spesso vengono “trattate” con ormoni come la
gibberellina, come vediamo dalle scritte sui tendoni “campo avvelenato”.
Caporali tour operator. Da aprile a settembre
centinaia di grossi pullman si spostano carichi di lavoratrici tra le
province di Brindisi, Taranto e Bari per la stagione delle fragole,
delle ciliegie e dell’uva da tavola. Grottaglie, Francavilla Fontana,
Villa Castelli, Monteiasi, Carosino, sono solo alcuni dei nomi della
geografia del caporalato italiano che sfrutta le donne. Il nome del
caporale è scritto in grande, stampato sulla fiancata dei bus, insieme
al numero di cellulare. “È per questo che nessuno li ferma”, dice
Teresa, altro nome di fantasia.
Donne e italiane, le nuove vittime del caporalato agricolo
Il potere del caporale si misura dal numero di pullman che possiede,
perché questo è indice anche della quantità di lavoratori che riesce a
controllare. Si va dalle cinquanta alle oltre 200 persone. Il caporale
prende dall’azienda circa 10 euro a donna e sui grandi numeri guadagna
migliaia di euro a giornata. “Nel magazzino per il confezionamento
dell’uva da tavola dove lavoro ci sono mille operaie italiane, portate
lì da più di dieci caporali diversi”, racconta Antonio, bracciante della
provincia di Taranto. In questi giorni i pullman percorrono quasi cento
chilometri, dalla Puglia fino alle aziende agricole che producono
fragole nel Metapontino, tra Pisticci, Policoro e Scanzano Jonico, in
provincia di Matera.
Questi proprietari conferiscono il prodotto a dei consorzi di
commercianti con sede nel nord Italia che hanno magazzini in loco.
L’intermediario prende una percentuale variabile, almeno del 2%, poi si
aggiungono i costi delle cassette e la tariffa del 12% pagata al
“posteggiante”, il personaggio che la espone in vendita ai mercati
generali. Alla fine si arriva a un prezzo al consumatore anche di 7 euro
al chilo nei supermercati di Milano.
Sfruttate come lavoratori immigrati. Gli orari di
lavoro e la paga variano a seconda del tipo di raccolta. Ma la regola
sono impieghi massacranti e sottosalario. Alle fragole si lavora per
sette ore, ma se sono mature e vanno raccolte subito si arriva anche a
10 ore. Nei magazzini di confezionamento si arriva anche a 15 ore. Ogni
donna deve raccogliere una pedana di uva pari a 8 quintali. Se ci mette
più tempo la paga resta uguale, per cui alla fine il salario reale è
meno di 4 euro l’ora. “C’è il pregiudizio che le donne iscritte negli
elenchi agricoli siano false braccianti – spiega Giuseppe Deleonardis,
segretario della Flai Cgil Puglia – invece vivono una condizione di
sfruttamento pari agli immigrati. Nel sottosalario, a parità di mansioni
con gli uomini, c’è un’ulteriore differenza retributiva: se la paga
provinciale sarebbe di 54 euro e all’uomo ne danno in realtà 35, la
donna non va oltre 27 euro”.
Ricatti ed estorsioni. Il salario ufficiale è di
50-60 euro. Ma vengono segnate la metà delle giornate di lavoro
effettivamente lavorate. Le braccianti vengono costrette a firmare buste
paga che rispettano i contratti, perché le aziende hanno bisogno di
dimostrare che sono in regola per poter accedere ai finanziamenti
pubblici. Di fatto continuano a pagare un terzo o al massimo la metà del
salario dovuto, richiedendo indietro i soldi conteggiati in busta paga.
“In provincia di Taranto, con inquadramento minimo, posso avere una
busta paga ‘ufficiale’ di 47 euro lordi, però in realtà me ne arrivano
27, massimo 28 a giornata – racconta Antonietta – L’azienda ci dà il
foglio di assunzione, noi dobbiamo portarlo con noi tutti i giorni nel
caso ci dovesse essere un controllo. L’autista del pullman risulta
essere un dipendente dell’agenzia di viaggio”. I datori di lavoro
mettono la paga del caporale sull’assegno che percepiscono le
lavoratrici, le quali riscuotono e danno al caporale la sua parte in
nero.
Sotto gli occhi della fattora. Nei campi italiani
succede di tutto, approfittando della disperazione e della crisi
economica. C’è chi aspira a diventare una “fissa” della squadra del
caporale come se fosse una specie di nota di merito in graduatoria. Chi
subisce molestie sessuali o la richiesta di prostituirsi per poter
lavorare. Ci sono donne caporali che sono anche proprietarie di pullman.
Ma la figura più ambigua è quella che tutti chiamano “la fattora”, una
sorta di kapò al femminile con una funzione di ricatto. È lei la persona
di fiducia del caporale che controlla le lavoratrici sul campo. “Il suo
ruolo è di subordinare psicologicamente le braccianti, garantendo loro
assunzioni se rinunciano ai diritti”, spiega Deleonardis. “Alla minima
protesta, rimostranza o insubordinazione si resta a casa per punizione –
dice Teresa – Anche se ti lamenti perché non vuoi viaggiare nel cofano
del pulmino”.
Né denunce né ispezioni. Emerge il quadro di un
sistema di produzione basato su ricatti, soprusi, omertà e conoscenza
personale. “Non ho mai visto un pullman essere fermato da una pattuglia
della polizia, anche se ne incontriamo molte”, continua Antonio. Secondo
Deleonardis questo è un sistema di caporalato legalizzato. “È una
situazione conosciuta da tutti sul territorio. Qui c’è una tolleranza di
un sistema di illegalità, non si vuole colpire il caporalato – dice
il sindacalista – Abbiamo chiesto al prefetto di Taranto di fare dei
controlli, ma possibile che non ci sia mai una verifica se i pullman
hanno le autorizzazioni a trasportare persone e in quali aziende
vanno?”.
I dati ufficiali del ministero del Lavoro dicono che ci sono state
1818 ispezioni in Puglia in tutto il 2014. Quelle che hanno riscontrato
irregolarità sono state 925, circa il 50%, per un totale di 1299
lavoratori coinvolti, pari a 1,4 lavoratori ad azienda. Un numero
davvero esiguo se paragonato ai datori di lavoro che assumono anche
mille braccianti per volta servendosi dei caporali.
Sessantamila sfruttate in tre regioni
di VALERIA TEODONIO
ROMA – Amina indossa un vestito leggero e scarpe
sporche di terra. Ha 25 anni, ma ne dimostra dieci di più. È diventata
mamma sei mesi fa e ha lasciato il suo bambino in Romania per venire a
lavorare in Italia. La pelle cotta dal sole, gli occhi grandi e scuri. E
gonfi di paura. Li tiene bassi, incollati al pavimento. Sta raccontando
a due operatrici della Caritas di
Foggia che è appena scappata, che l’hanno costretta a stare piegata sui
campi dei padroni italiani dall’alba alle dieci di sera, che non
l’hanno mai pagata, che le hanno preso i documenti. E che per
riprenderseli, e andarsene, è stata costretta ad avere dei rapporti
sessuali con il suo caporale romeno. Adesso non ha neanche i soldi per
il biglietto dell’autobus.
Il fenomeno del caporalato in Italia è una piaga sempre più profonda.
E la novità è che negli ultimi due anni c’è stato un aumento costante
della manodopera femminile: donne ghettizzate, violentate e sfruttate
che vanno lentamente a sostituire i braccianti di sesso maschile: oggi –
dicono i dati che sta raccogliendo la Flai Cgil e che pubblichiamo in
anteprima – le straniere schiavizzate in agricoltura sono 15mila (contro
i 5mila uomini). Sono quasi sempre giovani mamme, ricattabili proprio
perché hanno figli piccoli da mantenere. Un dato impressionante, che si
somma ad un altro elemento preoccupante: il numero sempre crescente
delle lavoratrici italiane, che, se non schiavizzate, sono comunque
gravemente sfruttate: sempre secondo le stime del sindacato, in
Campania, Puglia e Sicilia, le tre regioni a maggiore vocazione
agricola, sono almeno 60mila, in proporzione crescente rispetto alle
straniere. Vengono pagate 3-4 euro l’ora, ma anche meno in alcuni
territori, e costrette a turni massacranti.
Ad Amina hanno raccontato che tutti i soldi guadagnati in un mese
servono per pagare il viaggio, gli spostamenti, l’acqua, il vitto. E
che, anzi, è lei ad essere in debito. E che deve continuare a lavorare
fino a quando non sarà saldato. Altrimenti niente paga e niente
documenti. “Fai quello che ti diciamo, oppure ti ammazziamo”. Si è
dovuta anche prostituire in cambio della libertà. Molte altre restano a
spezzarsi la schiena fino a 14 ore al giorno, cercando in tutti i modi
di portare qualcosa a casa a fine stagione. Hanno bambini piccoli e un
bisogno disperato di soldi. E tornare a mani vuote non è pensabile.
Anche se le condizioni sono disumane.
Catania, ‘caporalato’ agricolo: le condizioni disumane delle vittime
Restano per l’estate o anche solo per qualche settimana, e poi se ne
vanno. Rientrano in Italia dopo qualche mese o l’anno successivo. Quando
va bene e hanno saldato il “debito” (i caporali trattengono soldi anche
per l’affitto delle baracche dove le fanno dormire), vengono pagate 3
euro l’ora come gli uomini schiavizzati, ma spesso anche meno. Vengono
preferite alla manodopera maschile proprio perché non si ribellano e
sottostanno a tutto, anche ai ricatti sessuali. Una pratica frequente in
Puglia, nel Brindisino e nel Tarantino, e in Campania, nel Casertano. E
in Sicilia, in particolare nella provincia di Ragusa, dove è stato
documentato il caso di donne romene “vendute” dai caporali ai padroni italiani, con cui vengono costrette ad avere rapporti sessuali, anche nel corso di festini a cui partecipano diversi uomini..
Ragazze reclutate in Romania. I caporali che operano
in Puglia vanno a reclutare le ragazze soprattutto nelle zone agricole
della Romania, nelle campagne intorno a Timisoara o a Iasi, zona al
confine con la Moldavia. Le imbarcano su pullman da 50 posti. Il viaggio
dura un giorno e una notte. “Organizzano viaggi verso il sud Italia –
racconta Concetta Notarangelo, coordinatrice del progetto Caritas in
Puglia – ma sappiamo per certo che arrivano anche in Emilia Romagna. Ma
nessuno ha il coraggio di denunciare. Qui non si tratta di caporali e
basta, si tratta di organizzazioni criminali. Malavita. Il caporale è
solo un anello della catena. Gli annunci per questi lavori escono
addirittura su un giornale romeno. Non è solo un passaparola. E le donne
hanno paura. Ma senza denunce nessuno viene punito. In tre anni che
seguo il progetto Caritas abbiamo raccolto in tutto 15 denunce. E poi è
comunque difficile provare il reato, ci sono alcuni processi in corso,
ma per ora nessuna condanna”.
In Campania ad essere schiavizzate sono le donne africane. “Se non
accettano di avere rapporti sessuali con il datore di lavoro (quasi
sempre italiano, ndr) non vengono pagate – spiega Cinzia Massa,
responsabile immigrazione Flai Campania – Non hanno permesso di
soggiorno, ed essendo clandestine sono le più ricattabili”.
Tutto il Sud coinvolto. Secondo i dati della Flai
Cgil solo in Puglia sono tra le 30 e le 40mila le donne gravemente
sottopagate, a cui vanno aggiunte diverse altre migliaia in Campania e
in Sicilia. A volte partono alle tre di notte e tornano a casa di
pomeriggio. I caporali intascano 12 euro per ogni donna che hanno
“procurato”. Anche se hanno un regolare contratto, vengono pagate 20-25
euro al giorno. Mentre sulla busta paga ne risultano 45. Succede
soprattutto nel Casertano e nel Salernitano. “Mentre lavorano – denuncia
ancora il sindacato – le donne vengono controllate da un guardiano, che
grida continuamente di non distrarsi e di essere più veloci. Per andare
in bagno hanno 10 minuti a turno. E se qualcuna si rifiuta di andare
sui campi in un giorno di festa, come il 15 agosto, viene ‘punita': per
qualche giorno non la fanno lavorare”. E se una ragazza è considerata
troppo ribelle non viene scelta. Le donne selezionate vengono caricate
sui furgoni o ammassate – anche in 30 – in camion telonati. Per questo
trasporto bestiame ogni lavoratrice paga fino a 7 euro a viaggio.
Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un milione e 200 mila. Nel
43 per cento dei casi – è il dato dell’Istat – si tratta di lavoro
sommerso. E il giro d’affari legato al business delle agromafie,
secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5
miliardi di euro all’anno. “Il caporalato – spiega Stefania Crogi,
segretario generale Flai Cgil nazionale – è stato riconosciuto come
reato penale solo nell’agosto 2011, ed è punibile con l’arresto da 5 a 8
anni. Prima era prevista solo una sanzione pecuniaria. Ma non sempre si
riesce a provarlo, anche a causa delle difficoltà che incontrano le
vittime nel denunciare. Serve un percorso di protezione”.
Amina è alla Caritas di Foggia. Ha fatto 50 chilometri a piedi per
arrivarci. Ora è seduta davanti a Concetta e le chiede i soldi per
l’autobus. Ma quando le chiedono di denunciare i suoi sfruttatori,
finalmente alza lo sguardo dal pavimento, gli occhi scuri fissano
quell’italiana che vorrebbe aiutarla. Forse pensa a suo figlio, e
all’uomo che le ha rubato tutto quello che poteva. Si alza. E scappa
via.
Ci manca il coraggio del camerunense Sagnet
di RAFFAELLA COSENTINO
ROMA – A pochi giorni dall’apertura dell’Expo le Ong del commercio etico di Norvegia e Danimarca hanno scritto al governo Renzi una lettera apertachiedendo
di agire contro il caporalato ed esprimendo la preoccupazione dei
consumatori dei loro paesi per l’illegalità che vige nel sistema di
produzione agricolo italiano. Si rischia il boicottaggio dei prodotti
italiani a causa dello sfruttamento dei braccianti, italiani e
stranieri.
Dal 2011 il caporalato è un reato penale sulla carta. Ma si fatica ad
applicare la legge, a vedere i caporali dietro le sbarre e a punire le
aziende agricole che si servono di loro. I processi sono lunghi e
dall’esito incerto. Questa mancanza di giustizia rafforza la tendenza
all’assuefazione a un sistema di soprusi da parte dei lavoratori,
soprattutto di quelli italiani.
Se il caporalato è diventato un reato penale lo si deve allo sciopero
dei braccianti africani di Nardò che nell’estate del 2011 rifiutarono
di obbedire all’ennesimo ordine del caporale che chiedeva un supplemento
di lavoro sui pomodori per la stessa paga di 3 euro e 50 centesimi a
cassone. Una protesta spontanea, guidata dal giovane camerunense Yvan
Sagnet, oggi sindacalista in quelle stesse terre con la Flai Cgil e
minacciato di morte per le sue denunce.
Il processo “Sabr” che vede Sagnet e altri braccianti testimoni al
tribunale di Lecce contro imputati italiani e stranieri, accusati di
essere i caporali e i mandanti dello sfruttamento, è ancora in corso.
La Regione Puglia e la Cgil si sono costituite parte civile, mentre il
comune di Nardò ha rifiutato di farlo, una spia della difficoltà ad
affrontare questo problema sul territorio.
“La protesta era sacrosanta perché le condizioni di lavoro degli
stagionali non erano coerenti con le nostre leggi e neppure con i
principi di civiltà”, ammette il sindaco e avvocato Marcello Risi.
Secondo il primo cittadino però, grazie ai controlli degli ispettori del
lavoro, il caporalato “si è di molto ridimensionato ed è diventato
residuale”. Eppure basta andare d’estate a Nardò per vedere le tendopoli
in cui alloggiano i migranti sfruttati e i ruderi in cui sono costretti
a vivere gli altri, sottomessi ai caporali. “Non ci siamo costituiti
parte civile perché il processo è fondato su intercettazioni e indagini
effettuate quando il reato non esisteva”, spiega Risi. Insomma, sul
territorio ci si aspetta che i datori di lavoro locali coinvolti nel
processo, come i Latino, vengano assolti. Il Comune non si costituisce
parte civile in un processo simbolo perché, afferma Risi, “per
l’amministrazione comunale di Nardò la costituzione repubblicana è il
simbolo più alto di tutti”.
Anche a Rosarno, cittadina calabrese teatro della famosa rivolta dei
braccianti africani che nel 2010 si ribellarono alla ‘ndrangheta e allo
schiavismo, le istituzioni non hanno pensato di costituirsi parte civile
nel processo contro Antonio Pititto, condannato a 13 anni e 10 mesi di
carcere in primo grado per avere ridotto in schiavitù il ghanese Joseph
Biribi. Dopo essere fuggito durante gli scontri, Biribi ha denunciato il
suo schiavista. L’unica a costituirsi parte civile è stata
l’associazione anti-tratta abruzzese “On the road”
che ha dato assistenza legale al bracciante. Biribi era costretto a
vivere in un rudere distante diversi chilometri dal paese di Cessaniti
(VV), insieme agli animali del ‘padrone’, senza bagno, energia elettrica
e senza copertura, per cui quando pioveva lui dormiva sotto l’acqua.
Lavorava con orari massacranti, sette giorni su sette, accudendo le
pecore, raccogliendo arance e mandarini, con una paga pattuita di 20
euro al giorno in nero. Parte del lavoro non gli fu pagato e Pititto gli
consegnò anche 100 euro falsi come salario. Biribi era costretto a
lavarsi con l’acqua avanzata dall’abbeveraggio degli animali, gli era
vietato usare la bombola del gas per scaldarsi. I giudici hanno
stabilito che c’è stato sfruttamento mediante violenza, inganno e
approfittandosi della situazione di necessità del lavoratore.
Pititto arrivò a picchiare e ferire Biribi con un pezzo di legno in
testa perché non obbediva al suo ordine di gettare via il cellulare che
squillava durante il lavoro e che era il suo unico mezzo di collegamento
con il resto del mondo. Dopo due anni, quando le forze dell’ordine
andarono a fare accertamenti sul datore di lavoro calabrese, trovarono
altri lavoratori stranieri segregati nello stesso rudere e ridotti alla
fame, costretti a mangiare gli avanzi dei cani di Pititto. Il processo
di appello è previsto per il 9 giugno in Corte d’Assise d’Appello a
Reggio Calabria.
Il ruolo ambiguo delle agenzie interinali
di RAFFAELLA COSENTINO
ROMA – “Il nome Quanta l’ho letto solo sulle buste paga
e sui Cud che arrivano a casa. Ma io non mi sono mai rivolta
all’agenzia interinale, lavoravo sempre e solo con il solito caporale”. È
la testimonianza di Maria, lavoratrice di Brindisi impiegata nelle
raccolte agricole stagionali attraverso l’agenzia interinale Quanta di
Rutigliano, in provincia di Bari. Sono migliaia le storie come la sua.
Per mascherare di legalità il caporalato, l’intermediazione illecita
avveniva usando la filiale barese di un’importante agenzia di
somministrazione del lavoro. “Non solo l’uso di caporali ma anche falsi
part time, sottosalario ed evasione – spiega il segretario della Flai
Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – Abbiamo fatto le segnalazioni ai
carabinieri e all’Inps e sono scattate le ispezioni e le sanzioni”.
Quanta ha azzerato il gruppo dirigente locale e ha avuto penali di
“centinaia di migliaia di euro”. Il 23 aprile ha firmato un protocollo
d’intesa con i sindacati (Cgil, Cisl e Uil) per contrastare il
caporalato. Nel documento c’è scritto che si ricorrerà a liste di
prenotazione e che “sarà garantito gratuitamente e secondo quanto
previsto da contratto, il trasporto per il raggiungimento del posto di
lavoro”.
Vincenzo Mattina, vice presidente del gruppo Quanta,
ex sindacalista ed ex parlamentare italiano ed europeo con i
socialisti, conferma che la filiale di Rutigliano è stata
“commissariata” e che le sanzioni dall’Inps sono state pari a “parecchie
centinaia di migliaia di euro”. A suo avviso la responsabilità è
interamente dei due ex responsabili della sede barese che sono stati
licenziati. Il vice presidente li definisce “dipendenti infedeli” che
hanno avuto “comportamenti anomali”. “Non avevamo nessuna percezione che
potessero essere usati caporali”, spiega Mattina elencando le
contromisure prese dal gruppo: filiale commissariata, ravvedimento
all’Inps, pagamento delle sanzioni, regolarizzazione dei lavoratori che
avevano avuto trattamenti inadeguati, esclusione dai clienti delle
aziende colluse con i dipendenti infedeli, accordo con i sindacati per
una condotta legale.
“Questi due dipendenti – precisa ancora il vice presidente di Quanta –
per semplificarsi la vita si facevano fare le squadre dai caporali, non
posso definirli altrimenti, invece la nostra presenza doveva servire a
regolarizzare situazioni off limits”. “Da questa vicenda abbiamo avuto
solo danni – continua Mattina – delle migliaia di lavoratori coinvolti,
nessuno ci aveva segnalato una qualsiasi anomalia e forse questo ha
determinato una falla nei nostri sistemi di controllo. Si è scoperto che
i caporali sono proprietari di pullman, ma per questo devono avere
delle autorizzazioni, è strano che queste persone siano tutte immacolate
e abbiano potuto avere le licenze”.
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