27/12/25

Oggi a Parigi, manifestazione a sostegno di Anna, attivista di Zora, violentata in una prigione israeliana


Anna, membro dell'organizzazione femminista anticapitalista Zora e giornalista a bordo della nave Conscience durante la Freedom Flotilla in rotta verso Gaza, ha dichiarato di essere stata aggredita sessualmente durante il suo trasferimento tra due prigioni israeliane dopo il suo arresto in mare da parte dell'esercito israeliano e cinque giorni di detenzione.
Parlando pubblicamente, Anna ha spiegato di parlare a nome di tutte le donne vittime di violenza di genere e sessuale, in particolare i prigionieri palestinesi, affermando che la vergogna ricade sullo Stato israeliano e non sulle vittime, e riaffermando la sua determinazione a continuare la lotta finché non sarà fatta giustizia. 
La manifestazione, promossa da diverse organizzazioni, intende denunciare la violenza sessuale e sistemica nelle carceri israeliane e sostenere tutti i prigionieri politici nel mondo. Il concentramento del corteo è per sabato 27 dicembre alle 17:00 presso ACTIT, 54 rue de Hauteville, per poi unirsi al raduno alle 19:00 davanti all'Ambasciata britannica, in solidarietà con i prigionieri filo-palestinesi ancora in sciopero della fame nel Regno Unito.

La compagna Luigia di Srp e del Mfpr L'Aquila criminalizzata per aver lottato contro il genocidio e per la sua continua attività di solidarietà ai prigionieri palestinesi Anan, Ali e Mansour - dal 16 gennaio mobilitazione

Pubblicato da soccorso rosso proletario il 

Non sono bastate le prescrizioni inutili imposte ai presidi nazionali a L’Aquila per Anan, Ali e Mansour del 21/11 e del 19/12 a scoraggiare la solidarietà, centinaia di persone hanno partecipato all’ultima udienza in cui era prevista la sentenza. Ora la Digos dell’Aquila ci riprova, a quasi un mese dalla sentenza, con un articolo a firma di Marcello Ianni sul Messaggero d’Abruzzo del 22 dicembre, nel tentativo di creare un immaginario collettivo volto a criminalizzare la resistenza del popolo palestinese e a spargere un clima di paura e tensione verso le persone solidali.

L’articolo in questione si apre con il seguente titolo: “Irruzione ProPal al supermercato, indagata un’aquilana di 61anni”, seguito dalla scritta in grassetto: “Per il pm Roberta D’Avolio disposta la scorta” e sotto la scritta in evidenza: “Processo ai tre palestinesi accusati di terrorismo – scorta per il pm D’Avolio e per Gargarelli presidente del collegio”.

Considerando che la maggior parte dei “lettori” si ferma oggi ai titoli e sottotitoli dei giornali, la conseguenza logica di un siffatto articolo è da un lato il tentativo di gettare ancora fango sui ProPal, dall’altro la loro intimidazione, posto che non è l’iscrizione nel registro degli indagati di una di loro la “notizia”. Se lo fosse, avrebbe dovuto essere pubblicata per tempo, dato che la chiusura delle indagini preliminari per il flash mob del 25 aprile al Carrefour è stata comunicata a L.D.B. per lo meno l’8 ottobre.

In quella stessa data L.D.B. veniva anche informata dell’archiviazione di parte delle querele da lei sporte per diffamazione nei confronti di un giornalista filo-sionista e di vari consiglieri comunali di centrodestra e di centrosinistra. A questa archiviazione L.D.B. ha fatto opposizione, ma delle denunce-querele nell’articolo del messaggero non si parla, anche se si riportano testualmente brevi stralci delle stesse.

Un’altra ipotesi circa il tempismo di questa “informazione” potrebbe essere quella di far dimenticare ai lettori di quando si è strillato ai 10 propal denunciati per l’azione del 25 aprile a L’Aquila, ed ora, rimasti con una sola e tre palestinesi sotto processo con l’accusa insussistente di terrorismo e in attesa di sentenza, quale occasione migliore per rilanciare il terrorismo mediatico nei confronti della solidarietà alla resistenza palestinese?

Da quando è iniziato il calvario giudiziario per Anan, Ali e Mansour, ogni presidio di solidarietà sotto il Tribunale è stato organizzato da L.D.B., ma nei presidi dove era attesa la maggiore partecipazione sono state fatte delle prescrizioni inutili, il cui unico senso era infastidire, se non addirittura intimidire, l’organizzatrice. Ed ora, “sempre restando in tema della Palestina”, si accosta a L.D.B. e ai tre palestinesi, la scorta alla D’Avolio e a Gargarella, nell’ansia di costruire un ulteriore teorema che giustifichi un’eventuale sentenza di condanna il 16 gennaio e criminalizzi la solidarietà. Ma sappiano, gli inquisitori, che l’unica cosa che hanno da temere è che emerga la verità, anche se a questo punto un dubbio torna ad affiorare testardo, anzi più di uno:

Sarà una sentenza di condanna già decisa? E da chi?

Avrete il coraggio di emetterla a nome di Israele o userete ancora il popolo italiano per condannare il popolo palestinese?

Sappiate in ogni caso che la solidarietà proletaria e popolare, che a voi fa così paura, sconfiggerà l’isolamento, le vostre sporche guerre e vincerà sull’ingiustizia e la morte su cui si fonda questo putrido sistema capitalista. Perché dove c’è ingiustizia la Resistenza è un dovere, e dove c’è Resistenza c’è solidarietà.

La solidarietà è la nostra scorta

Il 16 gennaio alle ore 9:30, tutte e tutti al tribunale dell’Aquila

L.D.B. per il soccorso rosso proletario

"Femminicidio, la sfaccettatura estrema del capitalismo" - Inviatoci dal Movimento Rivoluzionario delle Donne (MRM) - BRASILE

Saluti, compagne,
Le compagne del Movimento Rivoluzionario delle Donne (MRM) del Brasile hanno realizzato e tradotto un ottimo documento sul femminicidio e lo inviamo alle compagne. 
3 dicembre 2025
In Brasile abbiamo un'epidemia di femminicidi, perché se si confrontano i dati sanitari, che sono più alti, si arriva a 10 ogni 100.000 donne, ed è allora che si inizia a registrare un'epidemia". Queste parole sono state pronunciate da Jackeline Ferreira Romio, coordinatrice della ricerca "Chi sono le donne che il Brasile non protegge?", durante un'udienza pubblica tenutasi presso il Congresso Nazionale il 26 novembre. Dieci anni dopo l'entrata in vigore della legge sul femminicidio, gli omicidi di donne sono aumentati in numero e crudeltà. Dai 527 casi registrati nel 2015, la cifra è salita a 1.455 nel 2024, un numero che i ricercatori considerano unanimemente sottostimato. I brutali casi della giovane Tainara Souza de Santos, 31 anni, trascinata da un'auto e con le gambe amputate, e di un'altra donna colpita più volte da colpi di arma da fuoco sul posto di lavoro, sono solo gli ultimi di una serie infinita. Solo una settimana fa, Allane de Souza Pedrotti Mattos e Layse Costa Pinheiro sono state assassinate al CEFET-RJ da un dipendente che si rifiutava di accettare la supervisione di una donna. Questi casi sono il volto umano dietro i freddi numeri: il Brasile è il Paese con il più alto tasso di femminicidio. In America Latina e nei Caraibi, un inferno dove una donna viene violentata ogni sei minuti.
Ciò dimostra la mancanza di interesse dello Stato brasiliano nel proteggere le donne, in particolare quelle povere e nere, vittime del 68% dei casi di femminicidio. Dopotutto, lungi dall'essere un potere neutrale al di sopra delle classi, lo Stato è un apparato coercitivo che serve a preservare gli interessi materiali delle classi dominanti e l'intera sovrastruttura culturale che cerca di legittimare tali interessi. Costruito sulla brutale schiavitù dei popoli indigeni e africani, la cui componente cruciale – anche come strategia per popolare il vasto territorio – era lo stupro e la commercializzazione dei corpi delle donne e dei loro figli, lo Stato brasiliano è strutturalmente patriarcale. Gli uomini delle classi dominanti sono i principali proprietari dei mezzi di produzione e anche i principali agenti politici nelle più alte sfere dell'amministrazione. Le poche donne che raggiungono tali posizioni provengono, quasi senza eccezioni, da contesti abbienti e non possono, né vogliono, alterare il carattere delle istituzioni che occupano.
D'altra parte, se la donna della classe media è vittima di aggressioni, c'è un'indignazione pubblica che non si verifica quando lo stesso accade alle donne nere degli strati popolari, sebbene queste ultime, come abbiamo visto, rappresentino la stragrande maggioranza dei casi. Non esiste quindi una separazione meccanica tra classe, razza e genere, sebbene il dominio patriarcale sia di gran lunga precedente al capitalismo stesso e costituisca quindi un'istituzione sociale completa, una pianta infestante terribilmente radicata nel tessuto sociale, anche all'interno delle organizzazioni popolari. Come abbiamo affermato nella nostra Tesi, la specificità della condizione femminile "risiede nel fatto che, mentre gli uomini appartenenti alle classi lavoratrici (operai, contadini, intellettuali e le enormi masse semiproletarie) sono oppressi in quanto appartenenti a una classe dominata, anche le donne di queste stesse classi subiscono restrizioni al loro stesso status di esseri umani". Il maschilismo quotidiano, spesso naturalizzato e reso invisibile, è solo una conseguenza di questa forza millenaria che opprime metà dell'umanità. Dobbiamo rimanere vigili e combatterlo ovunque si manifesti.
Questa epidemia sociale mostra anche i limiti ristretti del diritto penale. Infatti, se l'emanazione di leggi più severe fosse stata sufficiente a prevenire i crimini, si sarebbe registrato un calo degli omicidi di donne, ma è accaduto esattamente il contrario. Lo stesso si osserva nel dibattito sul narcotraffico e sulle rapine. Come ha riconosciuto la giudice Ivana David, della Corte di Giustizia di San Paolo, in un'intervista a Folha del 2 dicembre, il problema più grande nella lotta alla violenza di genere non è la legislazione: "La pena per il femminicidio arriva fino a 40 anni di carcere, la pena più alta prevista dal Codice Penale. Abbiamo bisogno di maggiori investimenti in politiche pubbliche efficaci che proteggano veramente le donne". Ciò è ancora più drammatico se si considera che la maggior parte degli aggressori ha o ha avuto relazioni intime con le vittime, il che rende impraticabile un approccio incentrato esclusivamente sulla sorveglianza. Il discorso populista punitivo, l'unico approccio della destra alla questione, non è altro che una messinscena senza effetti pratici, messa in atto dagli stessi legislatori che hanno trascorso almeno dieci anni ininterrottamente a tentare di criminalizzare l'aborto in caso di stupro, anche su minori.
C'è un consenso tra ricercatori e movimenti femministi sul fatto che la coercizione, sebbene necessaria, non sia sufficiente. È necessaria un'ampia rieducazione degli uomini, così come una rete capillare di protezione per le donne che garantisca loro supporto materiale ed emotivo per spezzare il circolo vizioso della dipendenza finanziaria ed emotiva, il cui punto estremo è l'aggressione e l'omicidio. Ma lo Stato capitalista non ha alcun interesse a fornire né l'una né l'altra cosa. Una cultura di sottomissione femminile serve a mantenere le donne in schiavitù.
Sempre nell'ambito della rieducazione, in particolare giovanile, è necessario contrastare la pornografia e la prostituzione, manifestazioni di decadenza culturale tipiche dell'acuta crisi generale del sistema imperialista. Non c'è pornografia senza oggettificazione e degradazione della donna. Anche le sue forme "soft" non sono altro che il volto "umanizzato" di una rete brutale alimentata dalla tratta di esseri umani e dalla pedofilia, che perpetua i peggiori valori contro le donne, ovvero meri meccanismi di legittimazione. In realtà, la sottomissione proiettata sul corpo delle donne è semplicemente una derivazione delle peggiori ideologie e valori colonialisti imposti ai popoli oppressi. Quanto alla prostituzione, è inaccettabile trattarla come "lavoro salariato": una donna in questa condizione non vende la sua forza lavoro, ma il proprio corpo, e per questo la sua condizione è più vicina a quella di una persona schiava che a quella di un proletario moderno. Storicamente, questa attività è un residuo dell'Antichità! Come si può in buona coscienza normalizzare una pratica così anacronistica? Il rimedio alla solitudine non è coltivare relazioni artificiali, ma partecipare attivamente alla vita sociale.
Oltre alla rieducazione, il Movimento Rivoluzionario delle Donne difende il diritto delle donne all'autodifesa. Questa autodifesa implica l'organizzazione di reti di supporto per le donne vittime di violenza, la cui condizione minima è la possibilità di sostentamento. Pertanto, nell'organizzare la vita quotidiana delle donne, a partire dalla dimensione più elementare, che è il cibo, dobbiamo considerarla anche come una forma di autodifesa, ovvero come la costruzione embrionale di una nuova forma di organizzazione sociale. Dobbiamo sostenere, non solo a parole ma anche concretamente, le donne che desiderano divorziare, che desiderano interrompere una gravidanza, che affrontano l'abbandono in età avanzata e le molteplici forme invisibili di violenza. I corsi di autodifesa per le donne, in tutte le sue forme, devono essere diffusi il più ampiamente possibile. Nei casi più gravi di aggressione, l'autore deve essere sanzionato dalla comunità in modo proporzionale al danno causato. A differenza della giustizia borghese, la giustizia popolare deve essere rapida, poco costosa, efficiente e implacabile. Infatti, data la natura di questi episodi, solo un'organizzazione popolare strutturata per luogo di residenza può prevenirli e punirli.

Abbasso lo Stato reazionario, assassino di donne!
Combattere il patriarcato è compito di tutti, sotto la guida delle donne!
Per il diritto delle donne all'autodifesa!

1 "Senza donne, niente rivoluzione!" Tesi del Movimento Rivoluzionario delle Donne (MRM), link: https://novomepr.com.br/sem-mulheres-sem-revolucao-teses-do-movimento-revolucionario-de-mulheres/

Basta dire che la denatalità è colpa di chi non vuole figli: è ora di parlare seriamente di inverno demografico - Un contributo da Streghe - Fanpage

Ormai ce lo sentiamo ripetere da anni: le nascite sono sempre meno, la popolazione invecchia, e diminuiscono le persone che fanno figli. I governi lanciano allarmi verso ‘l’inverno demografico’, ogni tanto mollano qualche contentino alle famiglie tra cosiddetto ‘bonus mamme’ e assegno unico, ma d’altra parte nulla si fa per aumentare il numero e la qualità dei servizi offerti alle famiglie. Welfare nemmeno a parlarne: una delle prime cose che ha fatto il Governo Meloni è stato eliminare il reddito di cittadinanza, in una logica che premiava più le piccole imprese a basso valore aggiunto che le famiglie a basso reddito. Costringendo queste ultime ad accettare qualsiasi livello di salario per sopravvivere.
La domanda è: con salari bassi, assenza di servizi e mancanza di piani di welfare possiamo dire che è inutile lamentarsi del fatto che le persone non fanno figli?
La questione della natalità è un tema serio, che seriamente dovrebbe essere affrontato, almeno dalle istituzioni. Il livello invece, come al solito, è molto basso. Quindi dobbiamo sorbirci discorsi privi di qualsiasi fondamento logico, che puntano il dito contro ‘i giovani che non vogliono responsabilità’, le donne ‘che non si rendono conto dell’avanzare dell’orologio biologico’, i troppi ‘agi’ in cui la nuova generazione è cresciuta e che la rendono ‘non incline a voler fare sacrifici’.
Per questa nuova puntata di Streghe ho parlato con Chiara Saraceno. Professoressa emerita all’Università di Torino, dove insegna Sociologia della famiglia presso la facoltà di Scienze Politiche, è una delle più autorevoli sociologhe italiane. Il suo ultimo libro è ‘La famiglia naturale non esiste’. Saraceno mette ordine in un argomento molto complesso, le cui radici affondano in tempi nemmeno troppo recenti.
“È necessario chiarire innanzitutto che la denatalità è dovuta soprattutto alla diminuzione del numero di persone in età feconda”, spiega. “Questo perché sono nate meno persone nel corso del tempo: si tratta di un processo di lungo periodo. Le generazioni dalla mia in poi — io sono ultraottantenne — hanno progressivamente avuto meno figli. Per questo, quando si osserva che nel 1980 sono nati molti più bambini rispetto a oggi, non dobbiamo pensare solo che sia dovuto al fatto che le generazioni attualmente in età feconda hanno un tasso di fecondità drasticamente inferiore a quelle di allora. Il fattore principale è che, a motivo delle scelte di fecondità delle generazioni che si sono succedute, oggi  ci sono molte meno persone potenzialmente in grado di avere figli rispetto agli anni Ottanta. Innanzitutto va chiarito questo”.
“Bisogna poi distinguere tra tasso di natalità e tasso di fecondità - continua Saraceno -. Il tasso di natalità indica il numero di nati per 100 persone, mentre il tasso di fecondità misura il numero medio di figli per donna al termine dell’età feconda. I due indicatori sono strettamente collegati: se generazioni numericamente sempre più ridotte continuano ad avere pochi figli — e in media leggermente meno rispetto alle precedenti — l’effetto complessivo è un progressivo peggioramento dal punto di vista demografico. Continuare a pensare che il problema della denatalità sia una responsabilità, o un effetto principalmente imputabile alle generazioni oggi in età feconda, è sbagliato. Anche se facessero tre figli a testa, ci vorrebbe comunque molto tempo per compensare ciò che si è già perso, cioè il fatto che oggi siano numericamente di meno. Questo è un punto importantissimo, perché la distinzione tra le due cose è nota, almeno in linea di principio — e dovrebbe esserlo anche per i politici — ma poi, nei fatti, si continua a ragionare come se si trattasse solo dei comportamenti delle generazioni oggi giovani”.
Dire quindi che oggi ‘i giovani non vogliono più fare figli’, non solo è molto banale, ma anche privo di senso. “Il fenomeno di un basso tasso di fecondità, al di sotto del livello di sostituzione, non è un fenomeno recente. È così già da tempo, non riguarda solo le generazioni giovani di oggi, ma anche quelle che erano giovani dieci o vent’anni fa. Sono circa quarant’anni che abbiamo, oggettivamente, un problema di fecondità. Il punto più basso è stato raggiunto nella seconda metà degli anni Novanta, intorno al 1995, se non sbaglio. Da allora non c’è mai stata una vera risalita: ci sono stati solo piccoli rimbalzi, e oggi la tendenza è di nuovo in discesa. Per questo è anche cambiato ciò che si intende per famiglie numerose. Rispetto agli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso,  si è dimezzato il numero di figli che le definiva tali: tre, non sei come quando io ero una di sei figli - una famiglia ‘fuori standard’, in una società in cui la media era tre. Sempre per lo stesso motivo, da un censimento all'altro sono fortemente diminuite le famiglie con figli residenti sotto lo stesso tetto: perché se ne nascono pochi, aumenta la possibilità che i loro genitori si trovino per lunghe fasi della vita a non averli, ancora o più, in casa con loro”.
“Il primo dato, quindi, è questo: la bassa natalità è una questione che, anche dal punto di vista delle politiche, non può essere risolto facilmente, in poche mosse e in poco tempo. È anche per questo che l’immigrazione è importante, perché ringiovanisce la popolazione: gli immigrati sono tendenzialmente più giovani — non migrano i vecchi — e da un lato compensano la carenza di forza lavoro, visto che gli autoctoni in età da lavoro non sono in numero sufficiente, dall’altro contribuiscono a sostenere la natalità. Più la natalità che la fecondità, in realtà: perché se è vero che le donne straniere hanno mediamente tassi di fecondità un po’ più alti delle autoctone, tendono progressivamente ad avvicinarsi a questi, anche perché condividono, spesso in modo più accentuato, le stesse difficoltà”.
Ci sono poi i cambiamenti sociali, che certo hanno avuto un ruolo. “Tra i motivi del progressivo calo della fecondità vi sono certo cambiamenti culturali - continua Saraceno -. In particolare, non c’è dubbio che siano cambiate le donne, ed è un aspetto importante. Le donne oggi sono più istruite. Hanno in percentuali maggiori caratteristiche simili a quelle che, nella mia generazione, avevano solo le poche donne che studiavano a lungo. Già allora, infatti, chi proseguiva gli studi faceva figli più tardi: rimaneva più a lungo in formazione, si sposava più tardi e diventava madre più tardi. Dalla fine degli anni Settanta, per fortuna, le donne studiano quanto gli uomini, se non di più, e quindi restano più a lungo in formazione. È vero che, rispetto a molte coetanee — e anche ai maschi — di altri paesi europei, il livello medio di istruzione in Italia resta più basso, ma rispetto al passato le donne restano comunque più a lungo in formazione e hanno così caratteristiche che un tempo appartenevano solo a una minoranza, quella delle donne che facevano figli più tardi”.
“Il fatto che le donne studino di più significa anche che hanno aspettative nella vita che non si esauriscono nella maternità. Vogliono un’occupazione, vogliono realizzarsi, come si dice. Per questo investono anche su questi aspetti e rimandano: cercano prima di stabilizzarsi nel mercato del lavoro, di orientarsi, di capire. Da un lato, quindi, sempre meno persone vogliono avere figli a 18 o 20 anni; dall’altro, spesso uno o due figli sono sufficienti a soddisfare il desiderio di genitorialità. È quindi cambiato in parte  ciò che viene considerato una ‘buona vita’. Questo vale anche per gli uomini, ma riguarda soprattutto le donne, perché la maternità le coinvolge direttamente. E questo può ritardare le scelte riproduttive. Ritardando, sappiamo che la fecondità non aumenta con l’età: al contrario, dal punto di vista biologico e fisiologico diminuisce. Non a caso, in passato, i paesi che volevano controllare la fecondità innalzavano l’età al matrimonio, in modo che le donne arrivassero il più tardi possibile alla vita sessuale e quindi alla procreazione. Oggi, invece, si tratta di una scelta individuale. Anzi, probabilmente la sessualità è anticipata rispetto al passato, anche per le donne, non solo per gli uomini, mentre la procreazione viene rimandata. Non bisogna colpevolizzare: c’è libertà di scelta, ed è stata anche una conquista culturale, soprattutto per le donne, non essere considerate poco normali o poco femminili se non vogliono avere figli”.
Questo non vuol dire che la politica è esente dal dover fare qualcosa. Temi enormi come la precarietà, la povertà, l’emergenza abitativa, incidono molto sul desiderio di fare dei figli. Oltre che sulla vita delle persone in generale, che vogliano riprodursi o meno. “Si tratta di mutamenti culturali e nei comportamenti femminili che riguardano anche altri paesi occidentali sviluppati, che infatti hanno tutti tassi di fecondità bassi, chi più chi meno. In Italia, però, il rinvio delle scelte familiari dipende anche dal fatto che molte donne e molti uomini, pur volendo magari avere figli prima, non se lo possono permettere: il lavoro è precario, l’accesso alla casa è complicato, i servizi sono scarsi. Per le donne si aggiungono rischi e difficoltà ulteriori, legati proprio alle conseguenze della maternità sulle loro chances nel mercato del lavoro e sulla divisione del lavoro familiare. Tutto questo rallenta ulteriormente le scelte e spinge a rimandare, quando non a rinunciare. Si aggiunga che molti giovani vengono scoraggiati dal rimanere nel Paese perché non si sentono adeguatamente valorizzati, perciò emigrano altrove, diminuendo ulteriormente la popolazione in età fertile. Anche questa è una questione tipicamente italiana”.
“L’Italia, da lungo tempo, ha più politiche che scoraggiano che che incoraggiano la fecondità. Basta pensare all’assenza di politiche per la casa. Oppure ai servizi per la primissima infanzia, spesso scarsi e costosi, non accessibili a tutti, soprattutto se bisogna affidarsi al privato. A questo si aggiungono orari di lavoro poco flessibili e altri fattori: in sostanza ci sono più disincentivi che incentivi”.
Insomma: a fronte della legittimità delle scelte individuali, non è proprio vero che la maggior parte delle persone, anche quelle più giovani, non vogliono avere figli. “Segnalo che, mentre in altri paesi europei e negli Stati Uniti sta crescendo la quota di persone che dichiara di non voler avere figli — esprimendo un vero non-desiderio di figli, anche se può cambiare nel corso della vita — in Italia questo fenomeno non c’è ancora”, spiega infatti Saraceno. “Le indagini sugli adolescenti mostrano che molti vogliono avere figli, spesso due o tre. Non è quindi il desiderio che manca, ma la possibilità concreta di realizzarlo. Il problema è lo scarto tra desiderio e possibilità: non è solo questione di ‘prima faccio questo e poi i figli’ o di preferire il tempo libero. La difficoltà reale è avere figli senza rischi e senza compromettere la propria capacità di garantire loro una vita adeguata. Se metto al mondo un figlio, so che devo mantenerlo. Voglio dargli una vita buona, ma se il mio reddito non è sicuro nemmeno per i prossimi tre mesi, o se devo fare un mutuo ventennale per una casa di due stanze, dove posso mettere un figlio?”.
Da tempo i Governi (e non solo quello Meloni) non si occupano del tema. Nonostante i proclami e gli allarmi, non viene affrontato in modo adeguato né il tema del lavoro né quello della casa, come se fossero sconnessi dalle scelte riproduttive. “Non è questo governo in particolare a non occuparsi della questione: si tratta di una storia lunga. Questo governo, devo dire, fa discorsi molto pro-natalisti e ha introdotto qualche piccola misura, ma non sono le più adatte. Ad esempio, mentre il PNRR è stato ridefinito sette volte riducendo il numero di asili nido promessi, non esiste alcuna politica della casa degna di questo nome. Non è solo colpa di questo governo, ma continuiamo a non avere politiche strutturali. A un certo punto avevano persino tolto il fondo per l’affitto — non so se sia stato rimesso, probabilmente no — che serviva a sostenere chi fa fatica a pagare l’affitto. Non parliamo poi di quello che è stato fatto sulla povertà. Inoltre, molte misure sostengono più chi ha già figli che chi vorrebbe averne. Per esempio, la decontribuzione per le lavoratrici regolari con contratto a tempo indeterminato che hanno almeno tre figli. Quante saranno le lavoratrici in questa situazione? Pochissime. È una misura simbolica: premia chi ha già figli, ma non incentiva a fare un figlio in più, o il primo. Per arrivare ad averne tre, bisogna prima farne uno. Soprattutto, non si considera che bisogna aiutare le donne a restare nel mercato del lavoro senza perderlo o doverlo abbandonare quando hanno un figlio. Questi sono i problemi”.
La denatalità è un fenomeno irreversibile o una tendenza che può essere invertita? “La bassa natalità, come dicevo, è una questione che resterà con noi ancora per un po’, perché non possiamo improvvisamente aumentare il numero di persone in età feconda - conclude Saraceno -. Quelli che non sono nati non ci saranno, e quelli che oggi non nascono non ci saranno domani. Per questo l’immigrazione e politiche migratorie ben fatte sono indispensabili. Quello che possiamo fare, invece, è non disincentivare la fecondità, cioè la scelta di avere un figlio, e sostenerla per chi vuole farlo. Si può facilitare, ad esempio, con politiche della casa adeguate. Questo non significa necessariamente aiutare a comprare casa: per i giovani spesso è meglio anche l’affitto, perché comprare blocca per vent’anni e può limitare la mobilità. Servono politiche dell’affitto efficaci, perché oggi il mercato è costoso e ristretto, soprattutto nelle grandi città. Se, per esempio, per permettersi una casa bisogna abitare fuori dalla città in cui si lavora, con tempi lunghi di trasporto, tutto diventa più complicato. Servono anche politiche dei servizi e la garanzia di poter accedere a scuole e servizi per i figli senza doversi svenare: scuole di buona qualità con tempo pieno, una sanità funzionante. Servono anche lavori buoni, pagati adeguatamente e conciliabili con altre dimensioni importanti della vita, a partire dalla genitorialità, per le madri e per i padri. Perché anche i padri vanno incentivati a occuparsi della cura dei più piccoli, che non deve rimanere un compito esclusivamente materno”.

19/12/25

Da Milano, 17 dicembre Flash mob “Sorella noi ti crediamo” presso il tribunale di Milano



Noi, compagne MFPR MI, abbiamo partecipato con il nostro striscione e parole d’ordine, ponendo l’accento sulla necessità di lottare per cambiare il sistema, in contraddizione con l’approccio centrato sull’educazione proposto da NUDM.
- Il nostro striscione è stato molto fotografato da giornalisti e dai solidali presenti.
Non sono state molte le partecipanti, oltre noi, erano presenti le attiviste della "Casa delle donne maltrattate" e l'associazione del centro antiviolenza "Cerchi d’acqua", queste ultime sono state le uniche, insieme alle organizzatrici a fare un breve intervento dove hanno ricordato che la violenza non e' un fatto privato, ma un fatto sociale che riguarda tutte e tutti.
Noi abbiamo dato luogo ad un momento significativo:
- Una giovane ragazza ha portato un cartello con una sola parola: “vergogna”.
Questo gesto ci ha ispirato una nuova energia ed abbiamo iniziato a scandire coralmente quella parola, interrompendo il flusso degli slogan tipici di Nudm.
Il grido di “vergogna” è risuonato forte, sotto la pioggia, in una mattinata grigia milanese, lasciando un segno visibile e potente.
L’azione ha ricordato ai passanti la gravità della situazione attuale: un clima sempre più fascista e divisivo, che si accanisce contro le donne con ogni mezzo possibile.
Il risultato dell' udienza:
cade l'accusa di revenge-porn: risarcimento congruo (25.000 euro!) Il reato è estinto.
La ragazza non ci sta, non vuole soldi, continua la battaglia.
MFPR MI

18/12/25

Aborto libero e sicuro: il Parlamento europeo dice sì


My Voice, My Choice è un movimento di attiviste che ha raccolto 1,2 milioni di firme per chiedere uno strumento per un accesso all’aborto sicuro, legale e gratuito su tutto il territorio europeo.

Oggi, Il Parlamento europeo ha votato a favore del sostegno alla campagna My Voice, My choice, per un accesso all’aborto sicuro, legale e gratuito in tutti gli stati membri.

Questo voto è una vittoria per tutte le donne in Europa. L'UE ha finalmente dimostrato che l'assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva è un diritto umano fondamentale. Stare dalla parte delle donne o no, oggi si è deciso da che parte stare perché un’Europa che scende a compromessi sui corpi delle donne è un’Europa che ha già compromesso la propria anima.

Se l’Europa può proteggere le banche, i confini e i bilanci, noi invece vogliamo che deve proteggere le donne. Se l’Europa finanzia strade, ponti e addirittura armi, noi invece vogliamo che deve finanziare la salute delle donne.

My voice, My choise esiste perché le donne in Polonia muoiono di aborto illegale, perché le donne a Malta vengono trattate come criminali, perché in Italia l’accesso all’aborto esiste solo sulla carta ma nella realtà è bloccato per i tanti obiettori di coscienza e per procedure, associazioni che l'ostacolano, perché in Ungheria e in Slovacchia i diritti delle donne vengono sistematicamente smantellati sotto la bandiera conservatrice della tradizione.

I politici di destra in Europa da anni bloccano, ritardano e negano i diritti delle donne. Il risultato è che i diritti cambiano da confine a confine. Il risultato è che la libertà diventa una concessione, non un diritto, solo perché sei una donna e i corpi delle donne non sono il campo di battaglia di ideologie reazionarie, vecchie e fallimentari.

A chi continua a opporsi all’accesso ad un aborto libero, legale e gratuito diciamo una cosa semplice: la vostra ideologia non vale più dei diritti delle donne. Il vostro disagio non può e non deve mai prevalere sui diritti fondamentali delle donne.

Mettere in pericolo la vita delle donne non è responsabilità, è violenza politica. Una donna su tre nell’Unione Europea abortirà nel corso della propria vita. Criminalizzare l’aborto o renderlo inaccessibile non “difende valori”: mette deliberatamente le donne in pericolo e produce morte.

Basta sacrificare i diritti delle donne a paure vecchie e superate, un’Europa che controlla i corpi delle donne non è un’Europa di valori: è un’Europa che arretra. Un’Europa che controlla i corpi delle donne non è una democrazia: è un’Europa che sceglie la paura al posto dei diritti, il controllo al posto della libertà.

Per questo il voto di oggi è un colpo al fascismo sovranazionale che avanza in ogni ambito e spalanca la strada all'attacco generale ai diritti e alla libertà delle donne, come di tutte le masse popolari.

17/12/25

Al fianco delle donne che osano denunciare

Al fianco della coraggiosa ragazza che ha denunciato per stupro il figlio di La Russa e il suo amico Gilardoni. Denuncia che è stata archiviata dal Tribunale di Milano perché i due non avrebbero percepito il presunto stato confusionale della ragazza. Avrebbero assunto una condotta superficiale e non ci sarebbe prova di costrizione ancora una volta diciamo: sorella io ti credo
I Tribunali con decisioni e sentenze, il governo, con proposte di legge e prese di posizione di ministri contribuiscono a diffondere un humus di odio contro le donne, spandono a piene mani un humus reazionario contro di esse.
Questo richiede da parte delle donne di lottare a 360° gradi perché solo la rivoluzione può cambiare dalla radice la condizione di doppia, tripla oppressione delle donne in questa società.
E' imprescindibile sostenere le donne che denunciano, dentro e fuori dai tribunali far sentire forte la solidarietà e il sostegno.
Mercoledì 17 alle ore 11 si terrà un presidio promosso da NUDM di Milano davanti al Tribunale di Milano. Una delegazione delle compagne del mfpr parteciperà, le compagne, le studentesse,  le giovani ribelli, le lavoratici sono invitate a partecipare
Movimento femminista proletario rivoluzionario -Milano
Mfpr.mi1@gmail.com