15/09/12

Chiedere conto delle vite a chi decide di non farle contare

Dalle compagne del collettivo  Le venticinqueundici

Più di 80 persone disperse. E’ questo il racconto che ci arriva dai sopravvissuti dell’ultimo naufragio sulle coste di Lampedusa avvenuto nella notte di giovedì 6 settembre. E mentre l’Italia metteva in scena la macchina dei soccorsi, ormai rodata in anni di abitudine, in Tunisia stava accadendo qualcosa di nuovo. Dapprima in rete e poi da ieri, lunedì 10 settembre, una protesta a Tunisi davanti al Ministero degli esteri, una manifestazione in serata, un’altra manifestazione a Sfax, uno sciopero generale a El Fahs, nel governatorato di Zaghouan, luogo di provenienza di alcuni dei dispersi e la collera dei genitori e dei parenti, hanno fatto muovere il governo tunisino, accusato nei primi giorni non solo di immobilismo ma addirittura di indifferenza per aver partecipato alla celebrazione di un matrimonio collettivo anziché proclamare il lutto nazionale. Attualmente, una delegazione con a capo il segretario all’immigrazione Jaziri si trova sull’isola di Lampedusa, da cui, per la prima volta, anche questa un’assoluta novità, giungono parole di lutto non trattenute da frasi di circostanza dalla neo-eletta sindaca dell’isola, Giusi Nicolini, che si spinge a suggerire quanto “sia assurdo farli arrivare in questo modo”.
Un’allusione, seppur velata, alle responsabilità.
Già, perché questo è il punto, di chi sono le responsabilità? Il naufragio di giovedì è solo l’ultimo di una lunga serie di morti e dispersioni avvenute nel corso di ormai lunghi anni nel Canale di Sicilia e in altri luoghi del Mediterraneo. Un cimitero marino che ha sommerso le vite e i desideri di migliaia e migliaia di corpi, di donne, uomini e bambini. Ad ogni naufragio un fiume di parole di commenti, molte o poche, a seconda dell’emozione suscitata, e poi un nuovo silenzio in attesa di quello successivo. Certo, sta accadendo qualcosa di nuovo dopo il naufragio di giovedì, sarebbe assurdo non vederlo, come qualcosa di nuovo è già accaduto in Tunisia da molti mesi, da quando le mamme e le famiglie di altri “dispersi” hanno cominciato a chiedere conto alle istituzioni del loro paese così come a quelle italiane della vita dei loro figli, partiti subito dopo la rivoluzione e declinando così, come libertà di movimento, la libertà appena conquistata. Come gruppo di donne che in vari modi ha sostenuto la lotta di queste famiglie, non vorremmo, però, che anche questa volta, in cui accanto alle parole ci sono azioni di rivolta, si eludessero alcune verità.
Non è dell’acqua del mare la responsabilità di quei morti e dispersi. Non è dell’eventuale lentezza dei soccorsi, seppure anche su di essa di volta in volta sia necessario indagare. Non è nemmeno un problema di affinamento dei sistemi e delle tecnologie di controllo, come in questi giorni con stupore abbiamo letto sulla rete in alcuni appelli di associazioni europee. I controlli sono già lì, con tutte le loro tecnologie, tra le più affinate e avanzate, volte a produrre esattamente questo: corpi che passano e corpi fantasmi, morti o dispersi che li si voglia chiamare. Non è la rete del “traffico degli umani” quella a cui chiedere conto, perché, insieme alle morti, quella rete è prevista e voluta dalle attuali politiche migratorie. Non è, da ultimo, il governo tunisino quello a cui addossare la colpa dei suoi pochi controlli lungo le coste, della sua iniziale immobilità e della sua insensibilità, per quanto offensiva. O meglio, non è questo il vero problema. Certo, la proclamazione di un lutto nazionale, anziché la celebrazione di un matrimonio, sarebbe stato un passo significativo, ma persino il lutto e il pianto collettivo, a volte, possono servire a coprire anziché a svelare le responsabilità.
Rischiamo tutte e tutti, in questi giorni, proprio mentre qualcosa di nuovo sta accadendo, di lasciarci prendere da un inganno, o da un “grande inganno” se ci fermiamo a questo senza chiedere conto sino in fondo di quelle vite. A chi farlo? Alle politiche di governo delle migrazioni, dettate dall’agenda dell’Unione europea, e ai loro molteplici attori: l’Italia e il precedente e l’attuale governo tunisino per la loro complicità nel permettere tali politiche, in questo caso, le agenzie di controllo delle frontiere, le organizzazioni intergovernative a loro volta portatrici di un’idea di governo della mobilità. Uniche e unici responsabili di quelle morti e ancora una volta di non rispondere alla domanda essenziale: perché quelle donne e quegli uomini non hanno potuto prendere una nave di linea, un aereo, un qualsiasi mezzo di trasporto concesso ai cittadini europei per attraversare quel breve tratto di mare che divide le due sponde del Mediterraneo? Chi decide e perché questa differenza tra le due possibilità di mobilità? Il resto è un “resto”, previsto nella logica di tali politiche: a partire da quelle morti, dal Mediterraneo come cimitero marino, dalla lentezza o dalla solerzia dei soccorsi, dalla macchina tecnologica di un sapere più o meno affinato per il filtro del passaggio delle esistenze che potranno arrivare, per essere espulse o clandestinizzate, e di quelle che dovranno essere sommerse dall’inconsapevole complicità del mare.
“Un resto”, in cui, proprio i migranti tunisini con il loro agire la libertà, compresa quella essenziale di movimento senza cui la parola libertà rimane una parola vuota, ci hanno detto di non voler rimanere imbrigliati. “Un resto” di cui dapprima le madri e le famiglie dei giovami dispersi nel 2011 e ora le famiglie dei dispersi di quest’ultimo naufragio chiedono conto, insegnandoci che quel “resto” sono vite, figli, esistenze e desideri.
Quel “resto” sono vite che contano e di cui chiedere conto a chi decide di non farle contare.
Crediamo sia questo il messaggio che ci arriva in questi giorni dalla Tunisia: una ribellione collettiva contro le politiche migratorie come parti integranti di un governo economico sulle vite che le sta inghiottendo su entrambe le sponde.


Le venticinqueundici
http://leventicinqueundici.noblogs.org/



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