Volantino distribuito al Festival sociale delle culture antifasciste (http://fest-antifa.net/) che si tiene a Bologna fino al 2 giugno.
Anche solo considerando i dati dell’Istat, che certo sottostimano il fenomeno, in Italia la violenza di genere è compiuta per il 98% da uomini su donne; in massima parte gli stupratori sono cittadini italiani; la violenza maschile resta la prima causa di morte e di invalidità permanente delle donne. Oggi politici e giornalisti si sforzano di strumentalizzare gli episodi più eclatanti di stupro per legittimare politiche autoritarie e xenofobe. Ma va ribadito che la violenza di genere attraversa verticalmente tutta la società e che stupri e femminicidi non sono che la punta emergente di un fenomeno ben più ampio e stratificato: quello di una generale discriminazione delle donne, nel lavoro, nella vita quotidiana, nella negazione della nostra libertà, nella violazione dei nostri corpi, nella costrizione al silenzio.
Denunciare e contrastare la violenza sessuale non sarà allora sufficiente se non si mettono in questione anche le forme strutturali della discriminazione e del sessismo: la rappresentazione istituzionalizzata del «femminile», le immagini sessiste di Tv, giornali, libri di scuola, ma anche i processi di precarizzazione del lavoro femminile, le disparità di salario e di carriera nei posti di lavoro, l’attribuzione diseguale, solo alle donne, della cura gratuita della casa, dei bambini, degli anziani. Proprio la crescente discriminazione del lavoro femminile diventa, in tempi di crisi economica, il fulcro materiale di un rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne, costrette a lavori malpagati e, di conseguenza, sempre più vincolate alla casa in posizione di subalternità e dipendenza economica.
Solo ora ci si sta rendendo conto della gravità e dell’estensione della crisi finanziaria che sempre più investe e disgrega l’«economia reale» lasciando sul campo milioni di disoccupati. È una crisi che scuote violentemente parametri e assetti consolidati, tanto che c’è chi ha parlato dell’aprirsi di una «nuova fase del capitalismo» dagli esiti imprevedibili. Né è un caso che nei paesi occidentali la «politica per la famiglia» assuma oggi nuova importanza: l’Unione Europea raccomanda a governi e imprese di «sostenere la famiglia» e di «investire nelle risorse umane e nell’uso efficiente del capitale umano».
Ma i nuovi «aiuti familiari» comportano un forte risvolto di normatività, di controllo e di disciplinamento della vita delle donne: le politiche statali mirano oggi a distinguere tra «decorose» famiglie regolari (che riproducono lavoratori-consumatori) e lavoratori usa e getta, non garantiti, da sfruttare al massimo grado. In questo quadro, sono le donne a pagare il prezzo più alto: discriminate sul posto di lavoro, subordinate in famiglia, costrette gratuitamente al «lavoro di cura».
Non si tratta quindi di cercare risposte in una falsa coesione, ma nelle lotte e nel conflitto sociale promosso dalle donne. Oggi crediamo sia importante creare reti autonome di lotta femminista e forme di autoassistenza sviluppando e potenziando quegli esperimenti che già esistono di economia alternativa, dal basso, solidaristica.
Ma occorre altresì interrogarsi sui risvolti disciplinari dei nuovi progetti di Welfare: rivendicare una garanzia di reddito dalle istituzioni («reddito di cittadinanza», «reddito di esistenza», «salario garantito») riesce davvero a contrastare efficacemente le politiche sociali autoritarie? è adeguato portare avanti parole d’ordine che solo ieri apparivano utopiche e ora diventano strumento differenziale di governo e di disciplinamento?
Si pensi solo al progetto del «mutuo sociale per la casa» portato avanti in questi anni dai neofascisti di CasaPound e reso operativo di recente dal sindaco Alemanno. Anziché riproporre l’edilizia popolare o calmierare in qualche modo il mercato degli affitti, il comune di Roma preferisce erogare soldi alle famiglie avvantaggiando chi ha già disponibilità economiche e favorendo insieme la speculazione edilizia dei «palazzinari». Ma chi non ce la fa a pagare l’affitto non potrà certo permettersi di comprare una casa, anche con un mutuo agevolato. Quello del «mutuo sociale» è un programma politico di controllo e di promozione della famiglia italiana, «sana», disciplinata. Lo stesso potrebbe dirsi per la campagna del comitato «Tempo di essere madri», legato a CasaPound, che promuove in questi giorni una proposta di legge per il part-time alle madri lavoratrici italiane mantenendo lo stipendio pieno. Sono proposte del tutto coerenti con il nuovo «neoliberismo nazional-populista». Con una mano deregolamentano il lavoro; con l’altra tendono il pane, ma solo ad alcuni: a coloro che sono capitale umano, madri e padri fedeli al dovere, famiglia sana e perbenista. Queste politiche, infatti, sono basate su una pesante selezione degli aventi diritto e su condizioni inflessibili e ricattatorie per non decadere dagli «aiuti».
I provvedimenti a raffica di questi mesi; la proposta di elevare l’età pensionabile delle donne; la legge Gelmini che colpisce anzitutto le lavoratrici della scuola e le donne con figli; gli accordi discriminatori sui salari per cui a parità di lavoro sarà corrisposto minor salario; le lettere di dimissioni in bianco per liberarsi di donne in maternità; il ricorso alla cassintegrazione come anticamera, soprattutto per le donne, della perdita definitiva del lavoro; i licenziamenti delle operaie da fabbriche grandi e piccole e delle precarie dai call center; la sempre più dura condizione lavorativa delle tante donne immigrate prese nelle maglie della precarietà, dello sfruttamento, fino a forme di moderno schiavismo: tutto questo è parte di un attacco sempre più pesante alle donne che viene portato avanti dai padroni e dal governo. Oggi le donne sono le prime a pagare la crisi.
Di fronte a una situazione come quella attuale pare sempre più necessario un impegno di lotta femminista a tutto campo. Nella riunione nazionale del 24 gennaio, il Tavolo 4 «Lavoro/precarietà/reddito» della rete femminista e lesbica delle Sommosse ha deciso di lanciare l’idea di uno «Sciopero delle Donne», costruito in modo autonomo dalle lavoratrici, dalle operaie, dalle precarie, dalle disoccupate, dalle giovani, dalle migranti, per denunciare una disparità che perdura e peggiora ogni giorno.
Per questo proponiamo di prefigurare insieme, dal basso, uno «Sciopero delle Donne», con presidi, sit in, manifestazioni, volantinaggi, assemblee, raccolte di firme, iniziative di protesta, azioni simboliche (vedi http://femminismorivoluzionario.blogspot.com). Non pagheremo noi la vostra crisi! Non ci piegheremo alle politiche patriarcali che vogliono sottrarci quel poco di libertà che ci siamo conquistate!
Tavolo 4 Bologna
Verso lo Sciopero delle Donne
Anche solo considerando i dati dell’Istat, che certo sottostimano il fenomeno, in Italia la violenza di genere è compiuta per il 98% da uomini su donne; in massima parte gli stupratori sono cittadini italiani; la violenza maschile resta la prima causa di morte e di invalidità permanente delle donne. Oggi politici e giornalisti si sforzano di strumentalizzare gli episodi più eclatanti di stupro per legittimare politiche autoritarie e xenofobe. Ma va ribadito che la violenza di genere attraversa verticalmente tutta la società e che stupri e femminicidi non sono che la punta emergente di un fenomeno ben più ampio e stratificato: quello di una generale discriminazione delle donne, nel lavoro, nella vita quotidiana, nella negazione della nostra libertà, nella violazione dei nostri corpi, nella costrizione al silenzio.
Denunciare e contrastare la violenza sessuale non sarà allora sufficiente se non si mettono in questione anche le forme strutturali della discriminazione e del sessismo: la rappresentazione istituzionalizzata del «femminile», le immagini sessiste di Tv, giornali, libri di scuola, ma anche i processi di precarizzazione del lavoro femminile, le disparità di salario e di carriera nei posti di lavoro, l’attribuzione diseguale, solo alle donne, della cura gratuita della casa, dei bambini, degli anziani. Proprio la crescente discriminazione del lavoro femminile diventa, in tempi di crisi economica, il fulcro materiale di un rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne, costrette a lavori malpagati e, di conseguenza, sempre più vincolate alla casa in posizione di subalternità e dipendenza economica.
Solo ora ci si sta rendendo conto della gravità e dell’estensione della crisi finanziaria che sempre più investe e disgrega l’«economia reale» lasciando sul campo milioni di disoccupati. È una crisi che scuote violentemente parametri e assetti consolidati, tanto che c’è chi ha parlato dell’aprirsi di una «nuova fase del capitalismo» dagli esiti imprevedibili. Né è un caso che nei paesi occidentali la «politica per la famiglia» assuma oggi nuova importanza: l’Unione Europea raccomanda a governi e imprese di «sostenere la famiglia» e di «investire nelle risorse umane e nell’uso efficiente del capitale umano».
Ma i nuovi «aiuti familiari» comportano un forte risvolto di normatività, di controllo e di disciplinamento della vita delle donne: le politiche statali mirano oggi a distinguere tra «decorose» famiglie regolari (che riproducono lavoratori-consumatori) e lavoratori usa e getta, non garantiti, da sfruttare al massimo grado. In questo quadro, sono le donne a pagare il prezzo più alto: discriminate sul posto di lavoro, subordinate in famiglia, costrette gratuitamente al «lavoro di cura».
Non si tratta quindi di cercare risposte in una falsa coesione, ma nelle lotte e nel conflitto sociale promosso dalle donne. Oggi crediamo sia importante creare reti autonome di lotta femminista e forme di autoassistenza sviluppando e potenziando quegli esperimenti che già esistono di economia alternativa, dal basso, solidaristica.
Ma occorre altresì interrogarsi sui risvolti disciplinari dei nuovi progetti di Welfare: rivendicare una garanzia di reddito dalle istituzioni («reddito di cittadinanza», «reddito di esistenza», «salario garantito») riesce davvero a contrastare efficacemente le politiche sociali autoritarie? è adeguato portare avanti parole d’ordine che solo ieri apparivano utopiche e ora diventano strumento differenziale di governo e di disciplinamento?
Si pensi solo al progetto del «mutuo sociale per la casa» portato avanti in questi anni dai neofascisti di CasaPound e reso operativo di recente dal sindaco Alemanno. Anziché riproporre l’edilizia popolare o calmierare in qualche modo il mercato degli affitti, il comune di Roma preferisce erogare soldi alle famiglie avvantaggiando chi ha già disponibilità economiche e favorendo insieme la speculazione edilizia dei «palazzinari». Ma chi non ce la fa a pagare l’affitto non potrà certo permettersi di comprare una casa, anche con un mutuo agevolato. Quello del «mutuo sociale» è un programma politico di controllo e di promozione della famiglia italiana, «sana», disciplinata. Lo stesso potrebbe dirsi per la campagna del comitato «Tempo di essere madri», legato a CasaPound, che promuove in questi giorni una proposta di legge per il part-time alle madri lavoratrici italiane mantenendo lo stipendio pieno. Sono proposte del tutto coerenti con il nuovo «neoliberismo nazional-populista». Con una mano deregolamentano il lavoro; con l’altra tendono il pane, ma solo ad alcuni: a coloro che sono capitale umano, madri e padri fedeli al dovere, famiglia sana e perbenista. Queste politiche, infatti, sono basate su una pesante selezione degli aventi diritto e su condizioni inflessibili e ricattatorie per non decadere dagli «aiuti».
I provvedimenti a raffica di questi mesi; la proposta di elevare l’età pensionabile delle donne; la legge Gelmini che colpisce anzitutto le lavoratrici della scuola e le donne con figli; gli accordi discriminatori sui salari per cui a parità di lavoro sarà corrisposto minor salario; le lettere di dimissioni in bianco per liberarsi di donne in maternità; il ricorso alla cassintegrazione come anticamera, soprattutto per le donne, della perdita definitiva del lavoro; i licenziamenti delle operaie da fabbriche grandi e piccole e delle precarie dai call center; la sempre più dura condizione lavorativa delle tante donne immigrate prese nelle maglie della precarietà, dello sfruttamento, fino a forme di moderno schiavismo: tutto questo è parte di un attacco sempre più pesante alle donne che viene portato avanti dai padroni e dal governo. Oggi le donne sono le prime a pagare la crisi.
Di fronte a una situazione come quella attuale pare sempre più necessario un impegno di lotta femminista a tutto campo. Nella riunione nazionale del 24 gennaio, il Tavolo 4 «Lavoro/precarietà/reddito» della rete femminista e lesbica delle Sommosse ha deciso di lanciare l’idea di uno «Sciopero delle Donne», costruito in modo autonomo dalle lavoratrici, dalle operaie, dalle precarie, dalle disoccupate, dalle giovani, dalle migranti, per denunciare una disparità che perdura e peggiora ogni giorno.
Per questo proponiamo di prefigurare insieme, dal basso, uno «Sciopero delle Donne», con presidi, sit in, manifestazioni, volantinaggi, assemblee, raccolte di firme, iniziative di protesta, azioni simboliche (vedi http://femminismorivoluzionario.blogspot.com). Non pagheremo noi la vostra crisi! Non ci piegheremo alle politiche patriarcali che vogliono sottrarci quel poco di libertà che ci siamo conquistate!
CONTRO OGNI DISCRIMINAZIONE SESSISTA E PATRIARCALE!
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
Tavolo 4 Bologna
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