"...Anche noi, ricercatrici, studentesse, docenti e borsiste precarie abbiamo scioperato l’8 marzo degli ultimi due anni. Lo abbiamo fatto per denunciare la ricattabilità a cui precarietà e svalorizzazione delle nostre competenze ci espongono, la porosità dei confini tra l’imperativo alla disponibilità infinita – di tempo, gentilezza, cura, relazione, sacrificio – e la cattura invasiva della sfera personale e intima di ognuna; l’impossibilità di progettare un futuro rincorrendo contratti a termine, sedi di insegnamento, concorsi, lavori esterni per arrotondare; la dequalificazione del nostro lavoro scientifico e delle nostre competenze, che si riflette in maniera agghiacciante, ancora nel 2019, in una disparità enorme nelle progressioni di carriera e nella rappresentatività delle donne nelle posizioni apicali, e così via. Non che ci interessi scalare la gerarchia di potere accademico, anzi: da sempre denunciamo che il sistema di potere e sapere che informa l’università, soprattutto dopo l’approvazione della riforma Gelmini, è la cornice all’interno della quale questi processi sono stati
resi possibili e in qualche modo necessari. Quello che ci interessa piuttosto è segnalare come queste gerarchie riproducano e siano allo stesso tempo l’effetto di una strutturazione sessista ad ogni grado e in ogni sfera del “sistema università”.
La ricerca dunque in questo paese non solo è precaria, ma in quanto tale è anche sempre più donna: di più e meno pagate sono le donne, dalla base al termine della leaky pipeline (la figura che rappresenta universalmente le traiettorie di carriera accademica femminile: il condotto che perde acqua). Traiettorie interrotte da molteplici ostacoli che le fanno divergere da quelle degli uomini: lavoro di cura e maternità, ancora in gran parte sulle spalle delle donne, continuano ad essere i freni materiali al riconoscimento equo del nostro lavoro scientifico durante le selezioni e nell’assegnazione di posizioni di responsabilità. Ma non solo: per noi precarie la riproduzione paga anche lo scotto dell’assenza di tutele e welfare uguali per tutte. Se infatti alle strutturate sono (ancora) riconosciuti a pieno tutti i diritti legati alla maternità, le precarie possono accedere all’indennità di maternità solamente se hanno versato almeno tre mensilità di contributi nei dodici mesi precedenti, hanno diritto solamente a tre mesi di congedo parentale e godono del bonus baby-sitter solo per tre mesi al posto di sei. Inoltre, a differenza di quanto avviene per i padri strutturati, gli assegnisti hanno diritto al congedo parentale soltanto in casi estremi come la morte o la grave infermità della madre, riproducendo così i tradizionali stereotipi di genere che dipingono la genitorialità come un affare prettamente femminile. Infine, le non strutturate che vogliono avere figli devono fare i conti con le deadline inamovibili dei progetti di ricerca nell’ambito dei quali lavorano. La recente proposta da parte del governo giallo verde di lasciare “libertà” alle donne di scegliere se e quando usufruire del periodo di maternità, è un insulto a chi come noi questa libertà non può averla e un ossimoro crudele: in condizioni di ricattabilità la cosiddetta libertà è una chimera formale utilizzata come arma per ridurre le lavoratrici all’autosfruttamento e al silenzio.
D’altronde l’impianto generale delle politiche di questo governo va nel senso di peggiorare drasticamente le condizioni delle precarie e delle povere di questo paese. La logica ipocritamente familista spinta dalla sua parte più conservatrice e fondamentalista – la stessa della guerra alle “Ideologie del gender” – sta imponendo mille passi indietro rispetto all’emancipazione femminile e all’autonomia delle donne: dal reddito di cittadinanza al Ddl Pillon, passando per la proposta di “liberalizzazione della maternità”, la sua matrice punitiva, reazionaria e patriarcale è chiara: le donne devono tornare a casa a riprodurre la nazione; essere subordinate al pater familias o al padrone di turno; tacere le violenze per salvare la famiglia; lasciare agli uomini i posti di potere che meritano..."
La ricerca dunque in questo paese non solo è precaria, ma in quanto tale è anche sempre più donna: di più e meno pagate sono le donne, dalla base al termine della leaky pipeline (la figura che rappresenta universalmente le traiettorie di carriera accademica femminile: il condotto che perde acqua). Traiettorie interrotte da molteplici ostacoli che le fanno divergere da quelle degli uomini: lavoro di cura e maternità, ancora in gran parte sulle spalle delle donne, continuano ad essere i freni materiali al riconoscimento equo del nostro lavoro scientifico durante le selezioni e nell’assegnazione di posizioni di responsabilità. Ma non solo: per noi precarie la riproduzione paga anche lo scotto dell’assenza di tutele e welfare uguali per tutte. Se infatti alle strutturate sono (ancora) riconosciuti a pieno tutti i diritti legati alla maternità, le precarie possono accedere all’indennità di maternità solamente se hanno versato almeno tre mensilità di contributi nei dodici mesi precedenti, hanno diritto solamente a tre mesi di congedo parentale e godono del bonus baby-sitter solo per tre mesi al posto di sei. Inoltre, a differenza di quanto avviene per i padri strutturati, gli assegnisti hanno diritto al congedo parentale soltanto in casi estremi come la morte o la grave infermità della madre, riproducendo così i tradizionali stereotipi di genere che dipingono la genitorialità come un affare prettamente femminile. Infine, le non strutturate che vogliono avere figli devono fare i conti con le deadline inamovibili dei progetti di ricerca nell’ambito dei quali lavorano. La recente proposta da parte del governo giallo verde di lasciare “libertà” alle donne di scegliere se e quando usufruire del periodo di maternità, è un insulto a chi come noi questa libertà non può averla e un ossimoro crudele: in condizioni di ricattabilità la cosiddetta libertà è una chimera formale utilizzata come arma per ridurre le lavoratrici all’autosfruttamento e al silenzio.
D’altronde l’impianto generale delle politiche di questo governo va nel senso di peggiorare drasticamente le condizioni delle precarie e delle povere di questo paese. La logica ipocritamente familista spinta dalla sua parte più conservatrice e fondamentalista – la stessa della guerra alle “Ideologie del gender” – sta imponendo mille passi indietro rispetto all’emancipazione femminile e all’autonomia delle donne: dal reddito di cittadinanza al Ddl Pillon, passando per la proposta di “liberalizzazione della maternità”, la sua matrice punitiva, reazionaria e patriarcale è chiara: le donne devono tornare a casa a riprodurre la nazione; essere subordinate al pater familias o al padrone di turno; tacere le violenze per salvare la famiglia; lasciare agli uomini i posti di potere che meritano..."
Nessun commento:
Posta un commento