06/07/25

India - Donne braccianti costrette per lavorare ad asportare utero, ovaie e altri organi dell’apparato riproduttivo

Donne braccianti in India. L’orrore che rimane nascosto dietro la barbarie del lavoro da schiavi

Di fronte all’orrore di migliaia di donne costrette a farsi togliere l’utero per poter fare un lavoro da schiavi, va in frantumi ogni illusione sul capitalismo come miglior mondo possibile.

Di fronte all’orrore di migliaia di donne costrette a farsi togliere l’utero per poter fare un lavoro da schiavi, va in frantumi ogni illusione sul capitalismo come miglior mondo possibile.

Che sia in “affitto” o sia “rimosso”, l’utero delle donne, dopo e nonostante una lunga e proficua stagione di lotte femministe, “può” e “dovrà” essere gestito a seconda delle esigenze del capitale, e della condizione socio-economica (la povertà), che si trovano ad affrontare le singole donne. La società di mercato impone le leggi su cui si fonda, quelle della mercificazione e del valore di scambio, rimuovendo il confine tra ciò che è merce e ciò che non può esserlo, Marx lo aveva detto “TUTTO DIVENTA MERCE” (Miseria della filosofia 1847)...

...Facciamo un salto in India e precisamente nelle piantagioni di canna da zucchero del Maharashtra. Ogni anno in questa zona arrivano migliaia di lavoratori stagionali. Che affrontano viaggi lunghi anche centinaia di chilometri, nella speranza di un lavoro. Quello che trovano più che un lavoro è un impiego a tempo pieno come schiavi. 15 ore di duro lavoro giornaliero, senza riposi e giorni di pausa, per tutti i mesi della durata della raccolta. Molte famiglie sono costrette a portare con loro anche i figli, che non potranno accedere alla scuola, e che dovranno aiutare i loro genitori nel lavoro, senza essere pagati. I “lavoratori-schiavi” sono costretti a faticare fino allo sfiancamento sotto temperature infuocate, e spesso non ricevono neanche i soldi, perché i loro salari vengono trattenuti dai loro padroni aguzzini, per ripagare i debiti che sono costretti a contrarre ad interessi da usura. Il meccanismo di assegnazione degli appalti della raccolta della canna da zucchero si basa su un sistema, a dir poco, per niente trasparente. Passa attraverso mediatori legati ad interessi politico-clientelari locali, di industrie che riforniscono le grandi e potenti multinazionali come Coca Cola, Pepsi-co, e Unilever, sollevandole formalmente dalle responsabilità dello sfruttamento degli operai. (Inchiesta del NYT). Ma l’orrore che rimane nascosto dietro questa barbarie di lavoro da schiavi è ancora una volta il destino delle donne, che reggono interamente il peso di questa filiera infernale che va oltre qualsiasi immaginazione.

Il 36% delle braccianti censite ha subito una “isterectomia”, gli è stato cioè asportato senza necessità, utero, ovaie e altri organi dell’apparato riproduttivo. Potrebbero essere molte di più dal momento che in India milioni di persone non hanno documenti di identità, Ad obbligarle alla rimozione degli organi sono ovviamente i loro aguzzini, i “datori di schiavitù”. In questa maniera eliminano il rischio di gravidanze, eliminando così le pause per l’allattamento, e dulcis in fundo si eliminano le mestruazioni, che in queste condizioni lavorative, mancanza di acqua, per le donne sarebbero difficili da gestire, ma soprattutto si eliminano le pause, per il cambio assorbenti. (da un articolo di Davide Longo) Viene detto ai lavoratori che hanno facoltà di decidere se restare o andare via, ma in realtà chiunque tenti di andarsene viene “catturato” e costretto a rimanere, anche perché le paghe basandosi sul meccanismo del debito, non lasciano molta scelta ai lavoratori.
Inutile sottolineare che di questa condizione estrema di schiavitù, e soprattutto dell’abuso che subiscono le donne, il mondo politico che ci gira intorno, e che trae enormi profitti dal lavoro di questi stagionali, è molto variegato. Politici e leccaculo locali, ministri dell’attuale governo indiano, politici nazionalisti Indù, del Bharatiya Jamata Party, (al governo), ed anche membri dell’opposizione dell’Indian National Congress. Evidentemente il profitto unisce i padroni e i loro politici al di là della bandiera. Dall’Agro pontino a Latina fino a Maharashtra, in India anche il destino delle operaie, operai di tutto il mondo è unito dallo stesso sfruttamento, basta unire i puntini su di una mappa immaginaria, per capire quanta forza si può scatenare da questa massa di proletari, disseminati ai vari angoli del pianeta. Uniti anche loro dagli stessi interessi, farla finita con i padroni, farla finita con il capitalismo.

05/07/25

Seguire l'esempio delle operaie e operai dell'Electrolux


In fabbrica fa troppo caldo e gli operai se ne vanno:
"L'azienda ha ignorato l'allerta" 
I dipendenti della Electrolux di Forlì hanno abbandonato il turno di lavoro alle 12:15 invece che terminare alle 17; sono state seguite da altri reparti, che hanno abbandonato le postazioni. La decisione unilaterale è stata presa dopo che nella struttura, fanno sapere i sindacati, si sono toccate temperature vicino ai 40 gradi.
Secondo quanto riferisce la Fiom-Cgil, l'azienda avrebbe completamente ignorato l'allerta rossa per le alte temperature emessa da Arpae (azienda regionale per la protezione ambientale dell'Emilia-Romagna). Gli operai non l'hanno fatto e hanno così deciso, in autotutela, di concludere prima del dovuto la loro giornata lavorativa. "La salute per Electrolux non è una priorità", denuncia dalla Fiom la rappresentante per la sicurezza dei lavoratori Cinzia Colaprico. Secondo la delegata del sindacato, l'azienda non avrebbe adottato misure per alleggerire il carico di lavoro, aumentare le pause o introdurre strategie per mitigare il calore nei reparti.
"I dirigenti lavorano al fresco, chi è sulle linee invece sopporta temperature insostenibili". Le tensioni erano già emerse nella riunione del 2 luglio tra azienda e rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. I sindacati avevano chiesto l'attivazione di un orario ridotto (dalle 6 alle 14) per proteggere il personale durante i giorni più critici. Tra questi c'era proprio il 4 luglio. L'azienda ha respinto ogni modifica.
E le operaie e operai hanno abbandonato il lavoro e se ne sono andati a casa.

Lotta per la casa, contro il caro affitti a Milano - Le lavoratrici Slai cobas e del Mfpr sostengono e partecipano



03/07/25

La formazione rivoluzionaria delle donne riprende a settembre

Da oggi sospendiamo la Formazione rivoluzionaria delle donne, la riprenderemo a settembre; perchè in questo periodo estivo stiamo preparando nuovi opuscoli, nuovi materiali. 
Stiamo pensando anche ad alcuni momenti di FR fatti on line, che possano favorire il dibattito, il confronto.
Nel frattempo potete richiedere uno o più opuscoli del catalogo - che pubblichiamo - ve li invieremo gratuitamente in Pdf.
Per richiederli, basta scrivere all'e mail: mfpr.naz@gmail.com o a WA 3519575628









02/07/25

La festa dei ricchi, la fame dei popoli. Riflessione sulla trilogia Hunger Games di Suzanne Collins


C’è una saga letteraria e cinematografica che, a dispetto della sua confezione commerciale, racconta una storia dura e attuale. Hunger Games, scritta da Suzanne Collins tra il 2008 e il 2010, narra di un mondo diviso tra una Capitale ricca e crudele chiamata Capitol City, e una serie di Distretti impoveriti, oppressi e sfruttati. Ogni anno, due ragazzɜ da ogni Distretto vengono sorteggiatɜ per combattere a morte in un’arena televisiva, uno spettacolo di violenza che serve a mantenere il controllo e a distrarre chi subisce. La protagonista, Katniss Everdeen, si offre volontaria per salvare la sorella, dando vita a una storia di sopravvivenza, sacrificio e ribellione.
Ma Hunger Games non è solo finzione. Capitol City esiste. È la rappresentazione estrema dell’élite globale che vive nell’opulenza mentre miliardi lottano per la sopravvivenza. È New York, Londra, Tel Aviv. È Bruxelles che arma i confini e controlla i mari. È Washington che finanzia il genocidio a Gaza. È Roma che firma decreti razzisti e respinge migranti. Il mondo reale si divide tra pochi ricchi e potenti che festeggiano, si abbuffano e vomitano per continuare a mangiare, e milioni di persone che muoiono di fame, di guerra, di sfruttamento.
Capitol City non è solo il luogo della ricchezza sfrenata e dello sfruttamento. È anche il teatro di un grande spettacolo, dove il dolore, la sofferenza e la morte sono messi in scena per anestetizzare le coscienze e normalizzare l’orrore. Nel racconto di Suzanne Collins, ogni anno i Distretti assistono a quella che dovrebbe essere una tragedia reale ma diventa uno show televisivo, una sorta di reality crudele, in cui la morte è spettacolarizzata, e chi soffre diventa un mero intrattenimento.
Nel nostro mondo reale, questo meccanismo si riproduce con impressionante fedeltà. Le immagini di bambini morti, di quartieri rasi al suolo, di donne e uomini in fuga sono sfilate ogni giorno sui nostri schermi, ma il loro significato si dissolve in un flusso infinito di notizie, immagini, tweet, video che saturano e confondono. La ripetizione continua produce assuefazione, una sorta di anestesia collettiva che ci impedisce di indignarci davvero, di agire, di sentire l’urgenza di cambiare.
Parallelamente, la verità stessa diventa terreno di guerra. Con leader come Donald Trump, capace di dichiarare “fake news” qualsiasi cosa non si allinei ai suoi interessi, e di rimodellare il concetto stesso di realtà, si crea un cortocircuito pericoloso: ciò che è vero o falso non dipende più dai fatti, ma dalla volontà di chi detiene il potere. La disinformazione e la manipolazione diventano armi per controllare le masse, per dividere e indebolire ogni forma di resistenza.
La devastazione non si limita alle strade, ai corpi o all’informazione. Si estende alle fondamenta stesse della società: la scuola. Smantellare l’educazione pubblica, ridurre spazi e risorse per la formazione critica, delegittimare il sapere sono armi potenti di questo sistema. Privare le nuove generazioni degli strumenti per interpretare e decostruire la realtà significa condurle verso uno stato di passività e ignoranza, una condizione che può essere efficacemente descritta con la metafora degli zombie.
Fin dai tempi di George Romero, lo zombie rappresenta l’essere che cammina senza coscienza, incapace di vedere, pensare o ribellarsi. Lo zombie perde la capacità di reagire e tipicamente torna nei luoghi abituali in maniera automatica, come i centri commerciali. È la perfetta incarnazione di una società anestetizzata dalla spettacolarizzazione del dolore e dalla manipolazione della verità, che perde la capacità di reagire e che, ormai distratta, contribuisce attivamente alla distruzione di chi ancora è umano.
Accanto al controllo della verità e dell’informazione, il dominio estetico è un’altra forma di potere che l’élite esercita con precisione chirurgica. Il legame tra bellezza e bontà affonda le radici nella storia dell’arte e della filosofia occidentale. Già Platone, nella Grecia classica, associava il bello al vero e al bene, concependo un ideale estetico che non era solo forma, ma valore morale. Nel Rinascimento, la bellezza diventò strumento di potere, usata per legittimare autorità e costruire gerarchie sociali.
Oggi questo retaggio si è trasformato in un dominio estetico mercificato e politicizzato: le élite impongono modelli di “bellezza” che servono a distinguere chi detiene il potere, a creare gerarchie visibili e a mantenere privilegi. In questo sistema, “bello” diventa sinonimo di “meritevole” e “giusto”, alimentando insicurezze e plasmando identità in funzione del controllo sociale.
Un esempio concreto di come l’estetica venga usata come strumento di potere è “The Beautiful Bill”, la legge proposta da Donald Trump nel 2021 che mirava a trasformare la percezione pubblica della “bellezza” in un affare di controllo sociale. Non è solo una questione di apparenza: è una strategia per legittimare politiche esclusive, per imporre modelli di comportamento e per definire chi merita cosa. In questo modo, “bello” diventa sinonimo di “meritevole”, mentre chi non rientra in questi standard viene marginalizzato e escluso.
Questo controllo estetico si traduce anche in una narrazione pubblica attentamente costruita, fatta di immagini, discorsi e simboli studiati per legittimare chi detiene il potere, anche quando esercita violenza e sopraffazione. L’élite occidentale, attraverso media e diplomazia, costruisce uno spettacolo di normalità e razionalità, in cui le proprie azioni vengono presentate come inevitabili, giuste e “belle” nel senso di ordinate e legittime, nascondendo così la brutalità sottostante.
È in questo contesto che il 7 ottobre 2023, quando è iniziata l’offensiva militare israeliana su Gaza, abbiamo assistito a una narrazione mediatica che ha scelto di mascherare l’orrore con formalismi diplomatici e retoriche di “autodifesa”. Giorgia Meloni ha dichiarato senza esitazione il suo “pieno sostegno a Israele”, Ursula von der Leyen ha rinsaldato l’alleanza con una visita a Tel Aviv, e Joe Biden ha continuato a fornire armi e a bloccare risoluzioni ONU per il cessate il fuoco.
Questa è l’estetica del potere che non solo si mostra negli abiti e negli eventi, ma si declina in narrazioni pubbliche che anestetizzano, legittimano e riproducono violenza e disuguaglianze. Chi tace o minimizza diventa parte integrante di questo meccanismo, che mantiene in piedi un regime di apartheid militare con il sostegno dell’Occidente.
La sproporzione tra la ricchezza sfrenata di miliardari come Jeff Bezos — capace di spendere 300 milioni di dollari per un matrimonio a Venezia, una cifra che supera di gran lunga qualsiasi reddito medio, come quello di una lavoratrice italiana che guadagna 1.500 euro al mese — non è solo un abisso economico. È la manifestazione plastica di un sistema che costruisce e mantiene gerarchie radicali di potere e privilegio, traducendo la disuguaglianza in controllo culturale e simbolico. Questi numeri raccontano una storia di chi può vomitare dopo una festa esagerata per continuare a mangiare, mentre milioni muoiono di fame, una verità atroce che il sistema spettacolarizza e nasconde.
In questo scenario si inserisce la narrazione di Hunger Games, dove Capitol City rappresenta la Capitale dell’opulenza e dello spreco, mentre i Distretti incarnano le popolazioni sfruttate e marginalizzate. Peeta, che crede nella possibilità di un cambiamento dentro il sistema, viene piegato, torturato, reso un simbolo vuoto e manipolato. Katniss, al contrario, rifiuta quella sottomissione; la sua ribellione nasce dalla consapevolezza dell’ingiustizia strutturale, da un’urgenza che si traduce in lotta reale per la dignità e la sopravvivenza.
Questo legame tra disparità materiale e resistenza simbolica è fondamentale per comprendere il nostro presente. Non si tratta solo di numeri o di racconti: è la rappresentazione concreta di un conflitto globale, in cui il lusso sfrenato e la fame coesistono come estremi dello stesso sistema di dominio. Comprendere questa relazione ci permette di non cadere nella trappola della spettacolarizzazione passiva, ma di alimentare una lotta consapevole, intersezionale, che sappia mettere in discussione le radici di quel potere.
Il Brasile oggi ha cambiato formalmente governo, ma le ferite profonde causate dalla devastazione ambientale e dalla violenza sistemica contro le comunità indigene e marginalizzate restano intatte. L’ecocidio, l’etnocidio culturale e il femminicidio sistemico sono processi strutturali che non si fermano con un semplice cambio di nome o facciata politica.
Se non spezziamo questo meccanismo, se non costruiamo alleanze forti e radicali, saremo solo pubblico a guardare lo show di chi ci domina.
L’arena è ovunque.

Vi lascio il primo film completo

Alice Castiglione

30/06/25

Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere - Un contributo

Riportiamo questo testo/commento dell'avv. Antonietta Ricci. La tematica che affronta è importante e centrale nella battaglia politica, teorica contro i femminicidi. 
Su alcuni passaggi riteniamo che la discussione vada approfondita.
In particolare:
l'Mfpr ritiene che la "matrice" della violenza maschile contro le donne (che abbiamo sottolineato nel testo), sia capitalista in un sistema sempre più in crisi in tutti i sensi in marcia verso un moderno fascismo - sull'uso del "patriarcato" siamo più volte intervenute, analizzandolo criticamente - Ultimo nella Formazione rivoluzionaria di giovedì 26/6.



29/06/25

Dalla grande manifestazione del pride in Ungheria - più di 200mila persone - ci arrivano foto, commenti/info

Il Pride in Ungheria è stato più di una normale Giornata dell’Orgoglio ma un vero atto di rivolta contro il Governo Orban molto al di là dei membri della discriminata comunità LGBTQ+ ungherese. Orban aveva tentato in tutti i modi di vietare il Pride e di far passare i suoi partecipanti come pedofili, agenti dell’Unione Europea e traditori dei valori nazionali. Ci ha provato minacciando anni di galera agli organizzatori e sguinzagliando contro di loro e la comunità le tante bande nazi ungheresi, suo vero e proprio squadrone personale armato. Il risultato è stato il più grande Pride della storia ungherese 














MA...