15/10/18

NUDM - fatti e parole



I fatti sono sempre più duri e più veri delle parole - e ci riferiamo ai "buoni fatti" della combattiva opposizione al governo e alle politiche fasciste/razziste/populiste del movimento Nonunadimeno. 
Ma le parole non vanno sottovalutate e anche quando in parte sembrano, o sono, superate dai fatti, occorre mantenere una lotta critica affinchè o nuove parole corrispondano ai nuovi fatti o si elevi la coscienza della necessità della lotta anche rispetto alle parole, alle ideologie, alle teorie che le accompagnano e che prima o poi, in un'altra fase, possono tornare ad influire i fatti, perchè sono espressioni di classi, e in questo caso della piccola borghesia.

In questo senso pubblichiamo un commento critico al "piano femminista di Nonunadimeno", fatto a fine estate scorsa dall'Mfpr de L'Aquila. 

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Premessa
Prima di passare all’analisi critica del  Piano femminista antiviolenza di NUDM - analisi che comunque conferma quanto già sintetizzato sul documento del MFPR dello scorso anno “"Piano femminista" di NUDM....? Riformismo e illusioni di cambiare dall'interno il sistema si danno la mano - Le donne proletarie devono avere un altro "PIANO"...” - credo di dover fare accenno, per le compagne che non sono state iscritte nella lista NUDM, alla breve polemica innescata in quella lista, dalla notizia della manifestazione indetta dalla Camusso per il 30 settembre 2017 - a 2 giorni di distanza da quella indetta da Nudm - a cui aderirono anche firme note di Nudm. Quella polemica, seppur breve e circoscritta, ha messo di nuovo a nudo l’internità delle correnti riformiste e paraistituzionali (snoq, ossia sindacati concertativi, centri antiviolenza, ecc) nel percorso politico di Nudm. La polemica nacque nel metodo e non nel merito dell’appello della CGIL, che anzi fu accusata da Nudm, di averne usato contenuti e immagine per ottenere consensi.
Quella polemica, tuttavia, si fermò con l’emissione di un blando comunicato ufficiale di Nudm Milano, per rilanciare le manifestazioni del 28 settembre u.s. e distinguerle da quella della Camusso.
Ma anche da quel comunicato era assente qualsiasi critica, anche nel metodo, all’appello della CGIL, che ciclicamente si ripropone come interlocutore in Nudm all’avvicinarsi dell’8 marzo, sebbene abbia già dimostrato in più occasioni da che parte stia, soprattutto con la questione dello sciopero delle donne.
Anche nella stesura del piano femminista antiviolenza, fatta eccezione per lo sciopero delle donne, ripreso dalle argentine, e l’abolizione della “buona scuola”, sull’onda delle proteste e degli scioperi delle insegnanti, si riflettono contenuti, limiti e obbiettivi della componente concertativa e paraistituzionale di Nudm.
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Siamo la luna che muove le maree, cambieremo il mondo con le nostre idee.


“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” e Nudm non sfugge a questa legge, ecco perché, nonostante si dica che la violenza è strutturale, sistemica, la si affronta dal frutto e non dalle radici, dalla sovrastruttura e non dalla struttura, potando la mala pianta e non estirpandola, col risultato di farla crescere più vigorosa e spargendo illusioni sulla possibilità di cambiare dall’interno questo marcio sistema capitalistico.

E’ con questa filosofia che è stato anche redatto il piano femminista contro la violenza, dando centralità alla formazione e ai centri antiviolenza (CAV), per i quali si richiedono e si ottengono, almeno come impegno istituzionale, finanziamenti pubblici e strutturali, salvo poi eccepire che i documenti finali prodotti dall’Osservatorio nazionale contro la violenza  non siano stati condivisi con i CAV.
Sulla questione delle “alleanze” e dei CAV, per i quali si richiede un ulteriore supporto sotto questo esecutivo, è bene aprire adesso un’altra parentesi sulle trattative tra i cav e il governo (di allora) sul piano nazionale antiviolenza governativo approvato lo scorso anno.
Il 23 marzo 2018  è stato diffuso il comunicato congiunto preparato da Cgil, Cisl, Uil, D.i.Re, Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa – onlus, Udi Nazionale, Pangea, Rete per la Parità, che chiede al governo di rendere effettivo quel Piano nazionale antiviolenza che stanzia 31 milioni di euro per i centri antiviolenza. Inoltre, nell'incontro di luglio c.a. col dipartimento per le pari opportunità, queste associazioni (Telefono Rosa,  D.I.R.E, Udi, Differenza Donna, Maschile Plurale, Pangea Onlus e Cam.) ottengono l'impegno del sottosegretario di stato Spadafora, a costituire, entro settembre, una Cabina di regia politico-programmatica ed un Comitato tecnico di supporto, per dare concretezza a quanto previsto dal Piano strategico nazionale 2017-2020, e a predisporre un piano operativo su cui far convergere nuovi fondi da destinare, non solo ai centri antiviolenza ma anche ad altre realtà impegnate sul tema della violenza sulle donne (forze dell’ordine ecc.)

Sul piano
Al di là degli obiettivi dichiarati in premessa, anche suggestivi e condivisibili - “Questo Piano non chiede aiuto, è uno strumento di lotta e di rivendicazione, un documento di proposta e di azione. Questo Piano domanda piuttosto a ciascuno di posizionarsi, ognuno a partire da sé, di prendere parte a un processo di trasformazione radicale della società, della cultura, dell’economia, delle relazioni, dell’educazione, per costruire una società libera dalla violenza maschile e di genere. Non ci basteranno poche e mal distribuite risorse per combattere l’impatto della violenza nella sua strutturalità, chiediamo e ci prenderemo molto di più.” - sono gli obiettivi non dichiarati che ne orientano la scrittura e limitano, qualitativamente e quantitativamente la portata e la radicalità di Nudm, arginando questo movimento, nella teoria e nella prassi, dentro un recinto riformista e opportunista.
In ogni periodo storico, ma ancor di più oggi, in una fase di marcia verso il moderno fascismo, di intensificazione della guerra contro le donne, le riforme non possono essere che il sottoprodotto della paura della classe dominate del conflitto sociale, della rivoluzione.
Ma le esponenti di Nudm, soprattutto romane, hanno operato un rovesciamento, tipico del riformismo borghese, per cui le lotte sono diventate il sottoprodotto, l'accompagnamento “festoso” alle riforme (che ora più che mai il governo, il parlamento non può e non vuole dare).
Ciò che è emerso con forza nella manifestazione a Roma del 25 novembre scorso - dove a fronte della decisione assembleare di Pisa di manifestare con rabbia sotto i palazzi del potere si è preferita una rituale sfilata pacifica lontano da essi (che solo la presenza del MFPR ha messo apertamente in discussione) - è la centralità della Capitale, non solo per la presenza dei simboli del potere istituzionale, ma anche per l’influenza delle posizioni paraistituzionali e concertative di esponenti di Nudm, che hanno operato una sorta di colonizzazione politica dell’intero movimento, comprimendone le potenzialità rivoluzionarie sia nella gestione della piazza, sia nella stesura del piano.

Oggi più che mai è necessario, invece, che le donne proletarie, che sono la maggioranza, tornino ad essere centrali nel movimento delle donne, le loro lotte e le loro analisi trainanti e non codiste. Solo così smetteremo di essere “marea” e saremo, finalmente, Luna.

Il linguaggio
Le parole sono pietre, perché esprimono concetti. L’uso che se ne fa può portare a negare, nascondere o affermare certe contraddizioni e non altre. Bene fa quindi Nudm a porre l’accento sul linguaggio nella stesura del piano. Il problema è che lo fa solo in termini antisessisti, molto poco o affatto in termini classisti.
Si usa, anzi, la retorica del “posizionamento”, della “intersezionalità” e della “inclusione”, per minimizzare il conflitto contro Stati e padroni, per dire che le differenze tra le donne ci sono, ma che è possibile connetterle e valorizzarle grazie a questo piano. Un piano che in realtà è il frutto di una mediazione fra posizionamenti inconciliabili, in cui si prova a dire tutto e il contrario di tutto, per cercare di tenere unite le anime più radicali del femminismo ad un’élite di femministe di professione, che va dai CAV all’intera avvocatura femminista, alle giornaliste, alle femministe della piccola e media borghesia, a quelle dei sindacati confederali, che si guardano bene dal mettere in discussione i propri privilegi.
L’agilità con cui queste femministe borghesi saltano dal carro di Nudm a quello del governo (che sia del PD o dei giallo/verdi poco importa - vedi le premesse all’inizio di questa relazione) e viceversa, la noncuranza con cui Nudm ripropone a tutto il movimento delle donne un supporto a queste femministe nella loro competizione dialettica con il governo, impone a tutte noi il compito di dissezionare e decostruire  l’immaginario e le aspettative collettive createsi intorno a questo piano, che, di fatto, non vuole sovvertire proprio niente, ma stabilire una linea di interlocuzione con lo Stato, magari per dei miseri finanziamenti pubblici ad uso “esclusivo” di una élite di “femministe di professione”.

Il problema non è un piano femminista contro la violenza maschile sulle donne, ma un piano femminista proletario rivoluzionario per assaltare il cielo (maschio, azzurro, ricco e potente… ma popolato di stelle)
Per un’autonomia di classe delle donne proletarie, è necessaria una rete autonoma da Nudm, una rete delle donne operaie e proletarie, che parta realmente dai propri bisogni e non si lasci confondere/distrarre, da sirene riformiste e opportuniste.

Circa i ¾ dell’intero piano femminista contro la violenza maschile sulle donne, sono incentrati su una trasformazione culturale e politica della società, attraverso il potenziamento di consultori e CAV “laici e femministi”, il riconoscimento di quelli autogestiti dalle donne e il loro intervento formativo/educativo a vari livelli (scuole, dai nidi alle università, istituzioni politiche, media e industria culturale, aziende, luoghi di lavoro, ASL, magistratura, avvocati, consulenti, forze dell’ordine, polizia penitenziaria ecc.). Si definiscono i Centri Antiviolenza (CAV) “tutti i centri, gli sportelli, le case rifugio, le case di semiautonomia, gli spazi occupati e autogestiti delle donne. Questi sono luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne (con donne si intende donne cisgender, transessuali e lesbiche). In quest’ottica i CAV accolgono e sostengono i singoli percorsi di fuoriuscita dalla violenza, intervengono sulla formazione e sulla prevenzione sensibilizzando il territorio, e strutturano un sistema complesso di reti al cui centro c’è il vantaggio per le donne.
Poco o nulla si dice, in realtà, sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere.
Manca soprattutto un’analisi di classe di questa società. Non si spiega mai, in maniera esplicita, l’origine del patriarcato. Certo, si “riconosce l’intreccio tra la matrice patriarcale e quella capitalista delle oppressioni”, ma lo si fa in una nota in premessa per descrivere il transfemminismo. Non si denuncia che è questo sistema capitalista la causa principe della violenza sulle donne. Al massimo si dice che “la violenza di genere non è un’eccezione o un’emergenza del momento, ma il prodotto del patriarcato che ha una storia millenaria. Patriarcato che nel sistema capitalistico ha trovato nuova linfa vitale, a partire dalla divisione sessuale del lavoro che ha relegato le donne dapprima nella dimensione domestica - facendo così della famiglia etero-normata e mononucleare il cardine della riproduzione sociale -, in secondo luogo includendole nel mercato del lavoro a mezzo di nuove violenze, disparità e ingiustizie.”. Questa affermazione è in realtà un insidioso sofisma, che crea confusione, sia sull’origine del patriarcato, sia su quella del sistema capitalistico, e stride con l’analisi storico-materialistico-dialettica della condizione di oppressione delle donne.
Questa ambiguità di fondo è corroborata anche dalla parte introduttiva del piano, quando si afferma che “La violenza maschile è espressione diretta dell’oppressione che risponde al nome di patriarcato, sistema di potere maschile che a livello materiale e simbolico ha permeato la cultura, la politica, le relazioni pubbliche e private. Oppressione e ineguaglianza di genere non hanno quindi un carattere sporadico o eccezionale: al contrario, strutturale. Non sono fenomeni che riguardano la sola sfera delle relazioni interpersonali, piuttosto pervadono e innervano l’intera società. Da femministe abbiamo sempre denunciato le catene imposte dal patriarcato alla nostra autodeterminazione e libertà di scelta - attraverso gli stereotipi sessuali, il diritto, la chiesa o altri istituti religiosi e, soprattutto, attraverso la famiglia - evidenziando la connessione intima tra questi strumenti di dominio e l’imposizione della norma eterosessuale. Il patriarcato, e dunque la violenza maschile, sono inoltre da sempre funzionali alle logiche del profitto e dell’accumulazione capitalistica, all’organizzazione della società secondo rapporti di sfruttamento”. Con questo paralogismo, sembrerebbe che la divisione della società in classi, e quindi l’origine del patriarcato, sia in realtà slegata da esso, quasi fosse un “di più”, che merita di essere menzionato solo a fine discorso.
Il sistema capitalista, quando viene citato, è sempre aggettivato nella sua espressione neoliberista, non lo si attacca mai come tale. Non se ne chiede un rovesciamento, ma un miglioramento, un’umanizzazione, attraverso un welfare universale e pubblico che, se pur venisse accordato (e siamo nel campo delle illusioni), sarebbe solo un palliativo, funzionale alla ristrutturazione capitalistica nel suo complesso.
Certo, molti punti del piano sono condivisibili, come lo sciopero delle donne, che ancora una volta si conferma come la forma più adatta della lotta delle donne proletarie. Ma oggi, per tornare ad impugnare quest’arma, si pone con urgenza la necessità di un’autonomia di classe delle operaie e delle proletarie. Un’autonomia necessaria per agire oltre l’opportunismo del riformismo.

Diciamo le cose come stanno
Il patriarcato è la prima manifestazione della divisione in classi, determinata dalla nascita della proprietà privata, circa 10000 anni fa.
L'analisi storico materialistica di Engels e Marx dimostra che c'è stato tutto un lungo periodo, dallo stato selvaggio alla fase barbara, in cui era affermato il diritto materno e veniva riconosciuto il ruolo centrale della donna, come determinante nel sistema sociale. I mezzi di produzione (terra, strumenti rudimentali) erano di proprietà collettiva e i beni equamente distribuiti.
Con l’affermazione del principio della proprietà privata tra gli elementi maschili, nasce la necessità di tramandare la proprietà individuale. Dal diritto materno si passa a quello paterno e la prima divisione del lavoro è la divisione tra uomo e donna.
La condizione della donna, quindi, non è immutabile; l'origine e la base dell’oppressione delle donne è la proprietà privata e la prima divisione di classe ha visto lo sfruttamento dell'uomo sulla donna.

Dire questo a chiare lettere, è il passo necessario per affrontare il problema della violenza sulle donne alla radice e rimetterle con i piedi per terra e non per aria, perché senza l’analisi materialistico dialettica di  Marx, Engels, anche le riforme, seppur concesse, hanno le gambe corte.
Contro la concezione idealistico borghese che porta al riformismo, occorre operare un totale rovesciamento di queste teorie, per le quali i cambiamenti sarebbero possibili solo se avvengono nel mondo delle idee, della cultura, del diritto ecc. Idee che tra l’altro sono appannaggio di una ristretta rosa di elette, di “filosofe”, di “femministe di professione”.
Dire questo vuol dire porre, in maniera chiara, che la contraddizione di sesso è frutto della contraddizione di classe, che non si può chiedere al sistema capitalistico di non essere tale, e che la liberazione delle donne non è possibile senza la rivoluzione proletaria e il ruolo centrale in essa delle donne.

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