25/04/16

25 APRILE DEDICATO ALLE DONNE DELLA RESISTENZA ANTIFASCISTA - IN USCITA LAVORO DI DOCUMENTAZIONE DEL MFPR

DEDICATO ALLE DONNE DELLA RESISTENZA ANTIFASCISTA - IN USCITA LAVORO DI DOCUMENTAZIONE DEL MFPR


25 aprile 2016: 71° della Liberazione dal nazifascismo

dedichiamo questo lavoro 
alle donne della Resistenza antifascista.


Oggi pubblichiamo alcuni stralci perchè il materiale raccolto è tanto. Nei prossimi giorni cercheremo di rendere tutto il materiale in forma organica e lo metteremo a disposizione in un opuscolo.


A proposito delle obiezioni sollevate sul nome GDD: “…la definizione “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà” può apparire inadeguata a rappresentare la ricchezza di manifestazioni autonome e il significato di promozione ideale, civile e politica che fu realizzata sotto l’egida dei gruppi. Essa deve essere calata nella mentalità di una società che usciva dal fascismo e che prima del fascismo non aveva conosciuto una diffusa e chiara coscienza paritaria, neppure attraverso la predicazione socialista; e la definizione va riferita all’obiettivo che si poneva di
mobilitare e organizzare le più diverse componenti sociali, facendo anche appello alle motivazioni più elementari e ai bisogni più urgenti e immediati della lotta armata”.
Sottolineiamo qui che la spontanea ed estesa presa di iniziativa delle donne porta alla necessità di organizzarle e dare un senso collettivo al loro contributo, ma, soprattutto, è importante sottolineare la comprensione da parte del Pci di cogliere e dare concreta attuazione a tale esigenza. Soprattutto dopo oltre un ventennio di revisionismo che, da un lato, ha cercato di sminuire il ruolo del Pci nella Resistenza antifascista, dall’altro, ha cercato di ricondurre l’azione dei partigiani come a mero supporto degli alleati :” Le donne dunque non sono entrate in massa nella Resistenza perché il Pci ha creato i Gdd, ma, piuttosto, il Pci – o alcune donne dei partiti di sinistra – hanno creato i Gdd perché se ne sentiva l’esigenza, perché occorreva dare una struttura organizzata alle donne che già erano scese in lotta o che non chiedevano che di farlo……”
Come funzionava, quale struttura si erano data le donne organizzate nei Gdd? “…I gruppi sono composte di cinque donne, di cui una soltanto tiene il collegamento con un’appartenente a un altro gruppo e così via; all’inizio soprattutto, il primo compito era quello di allargare la rete delle aderenti e non è cosa facile avvicinare le donne, spiegare loro l’apporto che potrebbero dare alla lotta di liberazione: manca l’abitudine ad affrontare argomenti come libertà, giustizia, è persino arduo trovare le parole; è invece più facile organizzare la raccolta di indumenti, viveri, medicinali.



(..) insieme a quello molto più pericoloso di avvicinare i giovani per convincerli ad andare in montagna(…)
Ma la cosa più originale dei Gruppi è che fin dalle prime riunioni si parla, sia pure in modo embrionale, di ˂emancipazione˃ e su molte è un argomento che esercita fascino perché mai inteso prima…”
Insomma è indubitabile che, qualsiasi sia stata la motivazione di partenza, la partecipazione delle donne è stata molto estesa ed articolata, a tutti i livelli. Nelle testimonianze si coglie bene l’orgoglio, la gioia: “E’ stato il periodo più bello della mia vita” diranno in tante nelle testimonianze orali. Le avanguardie ne stimolavano la partecipazione guardando al futuro, al “dopo”: senza una partecipazione diretta delle donne nella lotta contro il nazifascismo come si potrebbe pensare di cambiare concezioni, ruoli imposti, sfruttamento..? Partecipazione che, spesso non verrà riconosciuta, “ufficializzata” con l’attribuzione di attestati, medaglie etc oppure verrà riconosciuto un grado inferiore rispetto al ruolo effettivamente svolto. Tantissime non si presenteranno per ricevere il riconoscimento del loro contributo, da un lato, perché esse stesse, sminuiranno il loro ruolo e contributo, dall’altro, per le concezioni sulle donne pur ancora dominanti.
D’ altronde già durante la Resistenza molti dubbi venivano sollevati sull’opportunità che le donne diventassero gappiste o entrassero nelle “bande” in montagna, in alcuni casi c’era un divieto esplicito.
“…Quante volte le donne hanno dovuto ricorrere all’astuzia, alla fantasia per passare un posto di blocco: libri di filosofia o di latino oppure cavoli e carote nella borsa che nel doppio fondo celava importanti documenti, per confondere i militi; biglietti o armi nascosti nelle fasce dei bimbi. Ma oltre a questi rischi per la propria vita, le donne ne correvano altri, che oggi possono sembrare persino ridicoli (in realtà sappiamo bene che le concezioni oscurantiste, maschiliste non sono mai “morte” ,ndr), ma che allora avevano un peso: la vita che conducevano, sempre in giro da una parte all’altra della città nelle ore più strane, anche durante il coprifuoco, l’essere sorprese in compagnia maschile da qualche conoscente, generava pettegolezzi, metteva in pericolo l’ ˂onorabilità˃, un problema in più per chi doveva rendere conto a padri e fratelli, non sempre al corrente della vera attività. Ma generalmente non se ne curavano, pensavano che a liberazione avvenuta le cose si sarebbero chiarite, contavano sui compagni, su quelli con i quali oeravano e alla cui stima tenevano in modo particolare. In realtà certi pregiudizi erano talmente radicati che anche chi avrebbe dovuto avere idee aperte ne era condizionato, tanto è vero che in montagna le donne generalmente non le volevano: ˂ I comandanti di bande preferiscono non avere donne tra i piedi, le donne in banda sono un imbroglio, una responsabilità troppo grossa.˃ Infatti Angelica Casile che tentò di entrare in una formazione perché ricercata, si sentì dire: ˂ Non ti possiamo prendere perché sei una donna.˃ E vane furono le sue proteste: le fecero presente che era in gioco la sua reputazione e no servì neppure che lei assicurasse che era stata settimane in una stalla con quindici uomini senza che le fosse successo niente. ( anche oggi a quanti casi di sessismo, maschilismo si assiste ad opera di “compagni”?ndr) Quando i comandanti sono costrette ad accettarle, arrivano a trattarle in maniera sprezzante e la testimonianza di Alba Dell’ Acqua ne è un esempio:˂ Dopo il rastrellamento in Valsesia fui inviata all’ospedale di Varallo, dove lavorava il dottor pino Rossi, per sentire che cosa pensava di fare dei partigiani feriti e anche di se stesso, ormai troppo compromesso per aspettare l’arrivo dei nazifascisti. Mentre ero a Varallo, cadeva Borgosesia e allora mi unii a Rossi che aveva deciso di rifugiarsi con malati e feriti sulle montagne di Alagna. Passammo il mese di luglio del 1944 nascosti nei boschi, soffrendo la fame e dormendo sotto gli alberi. Soltanto alla fine di luglio si potè riannodare i contatti con Moscatelli che ci mandò a dire di scendere a Gozzano e organizzarvi un ospedaletto. Andammo a piedi per i monti: come arrivammo ci fu un altro rastrellamento; nuova fuga sui monti dove Rossi incontrò due partigiani che lo consigliarono di dirigersi a Boleto a un comando partigiano. Ci andammo; mentre Rossi si intratteneva con gli amici, entrai nella casetta del comando; il comandante della brigata (un monarchico) mi interroga e, a bruciapelo, mi chiede: “ma tu sei qui per fare la partigiana o per fare la puttana?”˃ (…) 




Ma molti uomini, soprattutto i ˂ guerrieri˃, avevano questi atteggiamenti maschilisti…..”
Riprendiamo anche la testimonianza di Carla Capponi che svolse la sua attività nella Resistenza prevalentemente a Roma , svolgendo diversi compiti, ma principalmente nei GAP,  partecipa all’azione di via Rasella di cui i nazisti si vendicheranno in maniera atroce con le barbare uccisioni delle Fosse Ardeatine:”….Anch’io volevo procurarmi un’arma che mi veniva costantemente negata dai compagni dei GAP perché, secondo loro, noi donne dovevamo limitarci a mascherare la loro presenza nei luoghi degli attacchi fingendo di essere le fidanzate: erano convinti che, così, avrebbero corso meno rischi. A me riuscì di rubarne una sull’autobus a un giovane della GNR: era nuovissima, una Beretta 9 con relativo caricatore, che il ragazzo teneva stretta ai fianchi col cinturone..”
Si diceva prima, che lo sbarco degli alleati al Sud, insieme alla differente storia operaia, una coscienza sociale radicata, a partire da prima dell’ affermazione del fascismo, hanno determinato una diseguale possibilità di partecipazione delle donne che, pure, hanno partecipato, ad esempio a Napoli, all’insurrezione, anzi il loro ruolo viene ampiamente riconosciuto come determinante per la cacciata dei nazisti dalla città, ma altra cosa è la partecipazione organizzata e prolungata alla lotta per la liberazione dal nazifascismo. Anche in altre aree le donne partecipano alle proteste contro il carovita, mancanza di beni di prima necessità, nell’impedire il richiamo sotto le armi dei giovani, dopo l’8 settembre e quando in tanti erano tornati e la guerra si credeva finita. Partecipazione diseguale che permarrà negli anni successivi.
A questo proposito riportiamo da “Guerra popolare e liberazione delle donne in Nepal” di Hisila Yami pochi brani significativi, che aiutano a comprendere la specificità della partecipazione delle donne: “…E un altro punto di attrazione è il campo dell’esercito popolare. La milizia e l’esercito di liberazione popolare (EPL) sono diventati un punto di attrazione per le donne. Prima il punto di ingresso per le donne nel movimento era soprattutto il fronte culturale. Ma adesso il fronte militare è diventato un punto d’attrazione d’ingresso delle donne che si uniscono alla guerra popolare. L’azione che le porta ad entrare nel campo militare ha un effetto di trasformazione tremendo per le donne. All’improvviso una donna totalmente sconosciuta e remissiva si trasforma in una fiduciosa e indipendente combattente. Appare non meno intelligente delle donne cresciute in città. Sempre più diventa esperta in politica e in filosofia. Quando si affronta la vita e la morte per la maggior parte del tempo, ciò può succedere.
La natura prolungata della guerra popolare permette alle donne non solo di cambiare la società ma anche di cambiare se stesse. In un paese precapitalistico come il Nepal dove la monarchia assoluta domina il potere statale, la via verso il comunismo è lunga! La natura prolungata della guerra popolare permette ai rivoluzionari, in particolare alle donne rivoluzionarie che hanno un livello culturale più basso di quello degli uomini rivoluzionari, un lungo periodo di trasformazione”…..…(certo non è semplice, il pericolo del ritorno a casa delle donne è sempre molto alto ad esempio in caso di maternità, ndr)…..”E infine tutto questo dà come risultato l’arretramento delle donne nel movimento rivoluzionario..”..”In generale si è trovato che le donne si sono unite in gran numero alla guerra popolare e si sono sacrificate in tante, ma devono ancora essere ben formate dal punto di vista delle capacità organizzative, ideologiche e militari. Anche quando hanno mostrato queste qualità, devono ancora essere accettate e considerate dirigenti all’interno di varie organizzazioni del partito. Per affermare la direzione delle donne, devono ancora essere combattute la forza dell’abitudine e una certa attitudine negativa a tutti i livelli”..
Riprendiamo il percorso della Resistenza antifascista con la Toscana dove la Liberazione dai nazifascisti avviene progressivamente otto-dieci mesi prima dell’ Italia del Nord e vede attestarsi i nazisti nella Linea Gotica.
Particolarmente emozionante, di grande forza e impatto è ripercorrere gli eventi di Massa e Carrara.
“….A Massa e Carrara le donne si mossero soprattutto in modo collettivo, arrivando, come scrisse il comandante partigiano Brucellaria, a costringere ˂uno degli eserciti più forti del mondo a cedere all’eroismo, alla lotta, alla determinazione delle donne del popolo carrarese˃.
Questo avvenne il 7 luglio 1944 quando il comando tedesco, visto che la vita per loro diventava sempre più difficile in una zona peraltro di primaria importanza strategica, emanò un decreto in base al quale la popolazione doveva evacuare la città. Le donne si ritrovarono al mercato, dove per tutto il giorno tennero comizi, finchè alcune proposero di andare a bersagliare i tedeschi con i pomodori. Si formò allora un grandioso corteo di donne di tutti i ceti e di tutte le età che, gridando slogan, raggiunse il comando. La truppa intervenne ad armi spianate, tuttavia esse non si mossero e resistettero minacciose finchè l’ordine non fu revocato.
Ma la ˂grande epopea delle donne˃, come fu chiamata, era appena agli inizi. Vediamo che cosa dice in proposito un altro comandante partigiano, lo scultore Nardo Dunchi: ˂La pianura in faccia era occupata dagli alleati e dietro c’erano le montagne; quindi noi, partigiani e popolazione, non avevamo di che vivere per restare lassù in attesa di aggirare la linea Gotica, il giorno opportuno, come poi si fece. Furono ancora le donne a levarci da questo pasticcio. Noi, già dall’ 8 novembre, avevamo scacciato dalla città i fascisti e avevamo solo permesso che ci restassero venti territoriali tedeschi, i quali avevano la funzione di concedere i lasciapassare per le donne che si recavano a Parma, come dicevano, ma in realtà andavano nella pianura padana a comperare farina. [Come merce di scambio usavano il sale, genere di cui nelle zone interne c’era grande scarsità, e che ricavavano facendo lungamente bollire l’acqua del mare in grandi pentole su fuochi di legna delle pinete – N.D.AA.] Le donne si misero in marcia, in tante, coi carretti come usavano allora, con le ruote di legno. Dal mese di luglio sino ad aprile, viaggiando esclusivamente di notte, e non solo per il caldo d’estate, ma anche per evitare i mitragliamenti alleati, salirono i tornanti della Cisa; prima nel clado estivo, poi nel freddo dell’inverno, con le montagne e le strade coperte di neve e di ghiaccio. Siccome, poi, non c’erano in funzione gli spazzaneve, la strada della Cisa, a furia di calpestarla, era diventata una vera lastra di ghiaccio. E’ facile comprendere a che razza di fatiche erano sottoposte queste donne; per non parlare dei bombardamenti, che avvenivano anche di notte, alla luce dei bengala. Molte ci lasciarono la vita.
˂Fu dunque grazie alla loro abnegazione che noi potemmo, come avevamo promesso al generale alleato, quel 9 aprile, prendere alle spalle l’esercito tedesco, facendolo prigioniero; tanto da consegnare agli alleati, al loro arrivo in città, non solo i prigionieri, ma le strade sgomnre e intatte per farli correre, senza trovare più resistenza alcuna, fin sulla pianura padana.˃
Non occorrono commenti. Rispetto a quello che hanno fatto le donne, noi non abbiamo fatto niente˃, dice ancora Brucellaria.
Ma vediamo un po’ chi erano, come la pensavano, chi le guidava. Mogli di cavatori di pietre e dunque casalinghe popolane, ma anche bottegaie, maestre, qualche operaia e tante contadine. L’appartenenza politica era prevalentemente comunista e anarchica, secondo la tradizione locale, ma in realtà c’erano tutte, anche le suore del Sacro Cuore, che giunsero persino a fare, approfittando dell’abito che vestivano,, da staffette fra i partigiani e il Cln in più di una occasione. Al di sopra delle pur forti motivazioni politiche, a tenerle unite c’erano due cose: fame e desiderio di libertà.
Citiamo i pochi nomi emergenti: la famosa anarchica Lina Del Papa, la professoressa Raffaella Gervasio, l’azionista Ilva Babboni, Sandra Gatti, Maria Bertocchi, Nella Bedini, Renata Bacciola, Cesarina e mercede menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi, Elena Pensierini, Irma e Vittoria Grassi.
I Gruppi di difesa nel febbraio 1945 contavano su 133 attiviste, di cui 95 comuniste. E poi ci furono le partigiane in montagna….”
“..Non è stato facile né scontato costruire una organizzazione femminile di massa della Resistenza e ancora meno facile è stato riconoscerle un posto al fianco delle altre forze, che in quel momento combattevano, nonostante il grande contributo che le donne davano quotidianamente alla lotta. Su vari terreni e in vari modi si è cercato di impedire questa partecipazione femminile organizzata autonomamente, ma di questo non troviamo traccia nei discorsi o nei libri sulla resistenza.
Troviamo invece, largamente documentato, il doppio lavoro che le donne hanno compiuto nel vecchi ruolo imposto e in quello nuovo che si erano scelte: madri, spose, sorelle e, insieme, combattenti di un esercito popolare…..Abbiamo sempre parlato con orgoglio, e lo facciamo ancora oggi, dei Gruppi di difesa della donna, per ciò che hanno saputo essere nel movimento partigiano e siamo convinte che, senza quel tipo di organizzazione, la Resistenza non sarebbe stata vincente. Dobbiamo riconoscere che, proprio con quello strumento, si fece il primo tentativo di organizzazione autonoma delle donne per porre i problemi specifici della condizione femminile.
E, tuttavia, è proprio nella impostazione del programma e dell’organizzazione dei GDD che si rivelò la prima, profonda contraddizione.
I partiti della borghesia, presenti nel CLN……non potevano tollerare che si mettesse in discussione il ruolo delle donne nella famiglia e nella società e intendevano la loro presenza nella Resistenza come un momento di supporto….
..La seconda contraddizione andò facendosi sempre più profonda man mano che cresceva l’impegno delle donne. La contraddizione di sesso, più difficile da riconoscere e da combattere perché sorretta dal costume e dalle tradizioni secolari, si delineava anche là dove le donne si erano schierate: i nemici, coscienti e incoscienti della sua liberazione, erano i suoi stessi compagni di lotta….”
Emilia Romagna: la regione in cui la partecipazione delle donne alla Resistenza è ampia ed articolata, ma anche con una continuità con le lotte antifascista e del movimento operaio e contadino prima e durante il fascismo. In particolare le lotte delle mondine, delle operaie nelle fabbriche, nelle campagne non si fermano praticamente mai del tutto, come anche il contributo di giovani intellettuali sarà significativo. Ma è anche la regione attraversata dalla Linea Gotica (da Rimini a La Spezia) e in cui i bombardamenti saranno pesantissimi, come la presenza opprimente dei nazifascisti. Anche la Liberazione, quindi, avverrà in momenti diversi.
“..Richiamando gli uomini al fronte (10 giugno 1941, data di entrata in guerra dell’ Italia, ndr), il fascismo ha dovuto ricorrere in maniera sistematica alla mano d’opera femminile, e con ciò stesso la contraddizione tra la sua pratica sociale e la sua ideologia diventa perceepibile in ambito assai largo, che oltrepassa i confini politici e ideologici della cultura antifascista precedente. Il carattere regresssista e quello pretestuoso dell’antifemminismo fascista appaiono così evidenti nello stesso tempo: le donne, cui è stato in tempi normali negato il diritto al lavoro come base di indipendenza, sono ora costrette al lavoro sostanzialmente forzato, per la più elementare sussistenza dell’intera famiglia. I discorsi sulla forza degli uomini e sulla fragilità delle donne, di moda nel ventennio, ne vengono di colpo illuminati: l’orario è più lungo, la fatica maggiore del normale, il salario resta quasi sempre intorno alla metà di quello maschile. Prima ancora che il  tema della parità salariale entri in gioco, il sottosalario viene denunciato per la sua insufficienza: in questo momento iniziale, le lavoratrici sanno solo che il salario non basta per nutrire i vecchi e i bambini che pesano su di loro, e cominciano a chiedersi se sia naturale – per i sessi come per le classi – che guadagni di meno chi lavora di più, in questo caso la donna. Il concetto del salario femminile come salario ˂d’aggiunta˃ subisce un duro colpo, a livello di massa.
Dal 3 al 7 di giugno del 1940, a Spilamberto, le operaie della Sipe scioperano per aumenti salariali, e la lotta appare subito durissima: ai fermi e agli arresti, si accompagnano 122 licenziamenti e 224 sospensioni. Di lì a qualche mese l’operaia Barbolini, alla ceramica Marazzi, prende in pubblico la parola, durante un’agitazione contro le multe, presentando le rivendicazioni delle compagne. A carpi, le operaie della fabbrica Menotti sospendono il lavoro chiedendo aumenti salariali, metre quattro di loro, denunciate e condannate a tre mesi per direttissima, ottengono la condizionale, ma vengono licenziate in tronco (una di loro, Laura Solieri, ha quattro figli). Il 12 aprile del ’42, 129 operaie del calzificio Milano, a Reggio, vengono licenziate durante uno sciopero.
Non sono che esempi scelti a caso da una fitta serie di episodi analoghi: tornano, nel linguaggio, le parole tipiche dell’associazionismo operaio, ˂diritti˃, ˂rivendicazioni˃, quelle che la pesante mistificazione del linguaggio corporativistico aveva, negli anni precedenti, proibito e sepolto. La fabbrica, del resto, non è un luogo isolato, ma il punto dove arrivano e si rifrangono le ondate della protesta popolare: nell’ottobre del ’40, per esempio, lo sciopero delle operaie dello Jutificio Montecatini, a Ravenna, non è che il proseguimento di una manifestazione già avviata da mondine e braccianti contro il razionamento del pane; quasi un anno dopo, le operaie di alcune fabbriche di Parma innestano uno sciopero su un’agitazione cittadina scoppiata per il pane;…..
…..Ma il processo di maturazione politica investe anche la generazione che il fascismo aveva tenuto all’oscuro delle emancipazioni possibili. Scrive Alfea Selva, di Conselice: ˂ Prima della resistenza facevo la bracciante, poi soltanto la staffetta, andavo in risaia, nel collettivo, e a casa di contadini.
Orario di lavoro, 8 ore giornaliere, la paga era di 8 franchi e 8 soldi al giorno. Sono diventata antifascista a causa della brutta situazione in cui era piombato il paese, una guerra dopo l’altra, miseria, morti, orfani, e allora dentro di noi maturò la ribellione˃.”
Dopo l’8 settembre, l’occupazione nazista fa rapidamente comprendere come l’aspirazione alla fine della guerra, alla libertà si allontanano.
“…Le lavoratrici che vengono precettate nelle fabbriche per il lavoro coatto in Germania, sono in situazione, come si è notato, peggiore degli uomini: spesso le operaie sono mogli di soldati al fronte, e la deportazione, per loro, vuol dire lasciare a casa bambini senza genitori. Per questo le donne nelle fabbriche sono più decise degli uomini nella lotta contro la deportazione…”
“..l’8 settembre, appena fu chiaro che i tedeschi non avrebbero lasciato liberi gli italiani neppure di proseguiree o meno la guerra, le donne insegnarono ai soldati come si poteva cambiare una divisa con un abito civile, e come le strade verso i monti permettessero di sottrarsi alla complicità con i nazisti. Fra quelle donne, chi continuò a svolgere quella funzione anche dopo le repressioni naziste, diventò un centro organizzativo. Questo fu, a livello collettivo, il principio del loro partigianato. Va intanto notato che, in un curioso rovesciamento di funzioni rispetto alla tradizione, furono le donne a ˂difendere˃ gli uomini.
Un episodio per tutti: Lina vacchi, un’operaia che aveva già guidato, anni prima, uno sciopero alla fabbrica Callegari (e che sarebbe morta più tardi fucilata dai nazisti) riuscì a salvare Arrigo Boldrini dall’arresto durante una manifestazione davanti alla questura per la distribuzione delle armi alla popolazione. D’altra parte Boldrini non avrebbe fatto l’errore di sottovalutare il contributo femminile, reduce com’era dalla Jugoslavia, dove la Resistenza antifascista gli aveva rivelato anche questa sua (per l’ Italia, insolita) componente.”
“..Ma com’è che le donne vennero coinvolte, di là dall’organizzazione, anche nel partigianato vero e proprio’ Racconta Norma Barbolini (…)che un cero numero di ˂sbandati˃ di Sassuolo fu orientato dai comunisti locali, poco dopo l’8 settembre, verso la Resistenza in montagna e che alcuni tra loro entrarono nelle Brigate nere, dalle quali disertarono di lì a poco, costituendo con le armi così ottenute un distaccamento partigiano. In casi come questo spesso le donne raggiungevano i partigiani sui monti per evitare, fra l’altro, le rappresaglie che i nazisti esercitavano verso i familiari dei ˂renitenti alla leva˃..”
“.. A Reggio (…) era stato il gruppo formato dalle comuniste Gualdi, Taglini e da altre, che durante il ventennio fascista aveva tenuto vivo un embrione d’organizzazione. Più tardi, l’intervento decisivo di Lucia Sarzi e l’impegno di altri compagni, incaricati dal PCI di affrontare la questione femminile, sono aspetti di un’azione che spiega i motivi profondi della crescita comunista in certe zone della popolazione: il PCI è l’unico che affronta il problema della condizione delle donne – pur con tutte le contraddizioni – con animo, come si è visto, non provinciale, proprio per la sua esperienza internazionale..”
“..Nel modenese (…) si contano a centinaia i prigionieri inglesi, usciti dal campo di concentramento sulla via Nonantolana, che vengono salvati dopo l’8 settembre dalle donne: alcune di loro, Derna Malagoli, Vera Righetti, Ines Gallini, Chiarina Rognoni, saranno arrestate  nel gennaio insieme ai soldati italiani antinazisti. Questi episodi di solidarietà hanno già un senso  politico, se, come nota la Cronaca Pedrazzi, ˂dargli un sorso d’acqua può essere già motivo per una condanna capitale˃. Una ragazza di 16 anni, lalla Malavolti, insieme a un suo coetaneo, porta fuori dalle case popolari, l’8 settembre attraverso scale e passaggi, un numero incalcolabile di soldati braccati dai tedeschi, salvandoli dalla prigionia e avviandoli alla Resistenza; è in questo clima che prendono inizio esperienze garibaldine, come quella di Norma Barbolini, già ricordata, che sarà vice comandante partigiana sul campo di battaglia, dopo il  ferimento del fratello Armando, e protagonista della conquista di Montefiorino; sarà sempre lei, infatti, a correre dopo la battaglia in paese, braccata e sorvegliata com’è, per trovare un medico necessario  ai compagni feriti…”
“..Il  capoluogo regionale presenta lo stesso processo di coagulo: mentre il CLN si riunisce il 16 settembre (…)le donne, come ricorderà Ruggero Zangrandi, riescono spesso a farsi consegnare le armi dai soldati provenienti dalla Jugoslavia. (…) L’atteggiamento popolare si chiarisce attraverso episodi come quello di Castenaso, dove, il 15 settembre, donne e ragazzi forano i recipienti dell’olio che viene trasportato dai tedeschi in germania, lungo la strada, provocando la reazione dei nazifascisti.

Partigiane si trovano già nella formazione di Stella Rossa che si costituisce nel tardo autunno, come ha ricordato L. Bergonzini, tra il Setta e il Reno. Certo è che, in generale, la storiografia tende a cancellare i nomi femminili: neppure di Francesca Edera, massacrata con altri 5 antifascisti in via della Certosa il 31 marzo del ’44, così consapevole dell’imminente crollo del fascismo (˂ Anche un ragazzo, oggi può farvi paura˃ si dice rispondesse ai suoi persecutori), gli storici della resistenza bolognese, in generale assi più precisi degli altri, riescono sempre a ricordare il nome. (…)
Intanto, si andavano orientando verso la partecipazione diretta alla Resistenza alcune studentesse e giovani laureate (…)
Quando nell’aprile fu fondato il CUMER (braccio militare del CLN Alta Italia e comando regionale delle formazioni partigiane, ndr), Ena Frazzoni fu invitata dal comunista Dario Barontini, che lo dirigeva, a organizzare, dal centro bolognese, tutto il lavoro delle staffette.(…) (riportiamo una sua breve frase della sua testimonianza, ndr) :˂Ci sentivamo parte di un esercito clandestino, e ne sentivamo la responsabilità(..)˃
Un breve cenno, ora, sugli scioperi operai e sulle manifestazioni agrarie, promosse da donne o di cui le donne sono state gran parte. Nota il Bergonzini che ˂l’ampiezza dei contenuti politici nelle fabbriche a prevalente mano d’opera femminile˃ è il dato particolarmente significativo della situazione: tradizione antifascista più profonda e continua che altrove, leggi abnormi come quella sul lavoro obbligatorio dai 16 ai 60 anni per il  reclutamento di operai (che talvolta era il primo passo per la deportazione in Germania), sono tutti elementi che concorrono a una rapida acquisizione dei termini politici della Resistenza da parte delle lavoratrici.
Certo è che il ‘44 vede 300 donne accanto ai 400 uomini della Battistoni di Reggio scioperare in febbraio, altre (quasi un migliaio) nello stesso periodo alla Arrigoni di Cesena, per la riassunzione di un’operaia antifascista che era stata licenziata. Così nel gennaio scioperano gli operai, uomini e donne della Barbieri di Bologna, a sostegno di una manifestazione di donne a Castelmaggiore di Reno, secondo un’intelligente formula organizzativa che infatti sarà ripresa nel febbraio con uguale successo. Scioperi di lavoratrici già nel marzo si registrano a Ravenna, contro le norme che proibivano la circolazione in bicicletta, ecc., mentre uno sciopero allo Jutificio Ravennate, in aprile, si inserisce in un contesto di grande vitalità operaia.

L’aprile del 1944 è il mese in cui il motivo unificante di queste agitazioni diventa più chiaramente politico, attraverso la protesta contro la precettazione di lavoratori: scioperi di questo tipo se ne contano a Forlì il 12, a Parma il 17, il 5 e l’8 a Modena (dove già nel marzo c’era stata una lunga agitazione alla Maserati), il 13 e ancora il 22 a Bologna. Nel maggio, 150 operaie di Casalecchio scioperano ancora contro le deportazioni, mentre le donne addette alla sarchiatura e alla zappatura nel ferrarese, come le 200 mondine di Argenta, sostengono con le loro rivendicazioni sindacali il movimento antitedesco; il motivo della rivendicazione economica, la protesta contro la guerra, la difesa dei giovani destinati alla deportazione, si fondono nella manifestazione delle numerose operaie che il 4 maggio si portano davanti alla Casa del fascio di Ravenna.(...)

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