27/11/15

Una ricercatrice palestinese risponde all'Ambasciata di Israele

Samar Batrawi è ricercatrice presso l’Università King’s College di Londra. Di recente, ha scritto degli articoli che trattavano, in particolare, i movimenti e gruppi violenti che operano, in Siria e in Irak.
Interessata alle sue ricerche sullo Stato Islamico, l’Ambasciata di Israele, a Londra, l’ha invitata, questa settimana, per una “discussione”. Ecco la sua risposta.

Desidero dire, senza equivoci e nel modo più chiaro, che io rifiuto ogni associazione o collaborazione con l’Ambasciata di Israele, a Londra, per due distinte ragioni.

Innanzitutto, io sono la nipote di Mahmoud e Fatima Batrawi, due Palestinesi di Isdrud, che sono stati deportati, forzatamente, quando lo Stato che voi rappresentate è stato creato. Entrambi sono sepolti, in un cimitero della Cisgiordania, sormontato dalla colonia illegale di Psagot, legittimata dal governo dello Stato che voi rappresentate. La mia famiglia è una delle molte famiglie palestinesi che sono sopravvissute e cresciute contro ogni previsione, contribuendo alle società in cui vivono. Sono medici, insegnanti, avvocati, giornalisti, scrittori e accademici. E’ sulle spalle di questi eccezionali esseri umani che io, Palestinese che ha vissuto sotto la brutale rioccupazione di parti della Cisgiordania, durante la Seconda Intifada, sto. Voi siete, come ha detto, chiaramente, uno dei vostri cittadini più coscienziosi, “i loro occupanti, i loro torturatori, i loro carcerieri, i ladri della loro terra e della loro acqua, quelli che li esiliano, i demolitori delle loro case, quelli che bloccano i loro orizzonti.”.E’ sotto l’occupazione dello Stato di Israele che mio padre deve vivere, ogni giorno; è il suo assedio di Gaza che la mia famiglia ha sopportato, troppo a lungo; è il suo Governo criminale che ha diviso la mia famiglia in due, per più di dieci anni. E’ il “diritto all’autodifesa di Israele” che disturba il mio sonno, ogni notte, quando mi chiedo se mi sveglierò con la notizia che un dei miei cari è stato ucciso come “danno collaterale”, in una delle vostre operazioni, astutamente orchestrate. E’ l’odore del gas lacrimogeno, sparato dalle “forze di difesa” che sento, nei miei incubi, un ricordo infantile condiviso da molte generazioni di Palestinesi.

In secondo luogo, l’articolo che ho scritto sull’apparente appropriazione della questione palestinese da parte dello Stato Islamico non implicava un interesse condiviso tra Israeliani e Palestinesi, come tutti quelli che lo hanno letto, in modo critico, avranno capito. Voi rappresentate l’occupante e io rappresento l’occupato. Non è una posizione politica ma, piuttosto, la realtà della mia vita, quella che lo Stato di Israele mi ha imposta. Nessun supposto interesse comune può prevalere su questo fatto fondamentale. I soli temi da discutere sono i Diritti Umani di base dei Palestinesi che vivono sotto occupazione e in esilio. E lo Stato che voi rappresentate ha ben chiarito di essere disinteressato a questa questione.

Due brevi commenti finali.

Che cosa rappresenta per voi il 3 novembre? In questo giorno di 59 anni fa, le forze israeliane hanno massacrato centinaia di Palestinesi, a Khan Younis. Mia nonna era una giovane mamma, all’epoca, mio padre aveva pochi mesi. Lei lo teneva in grembo, nascosto sotto il vestito, con la paura che le forze israeliane lo potessero trovare e portarglielo via. Sono morte tra le 275 e 415 persone, quel giorno, ma la mia famiglia è sopravvissuta per raccontare la storia. Questo rappresenta per me il 3 novembre.

Infine, come cittadina palestinese, titolare di una carta di identità della Cisgiordania, non posso mettere piede, in Israele, a meno che non ottenga un permesso. Per questo, non posso essere utile ma trovo divertente il fatto che l’Ambasciata di Israele vorrebbe organizzare un incontro con me perché, anche se accettassi questa offerta, avrei paura di essere picchiata e imprigionata dalle vostre guardie per infiltrazione.

Trovo vergognoso che vi rivolgiate a me, in queste circostanze. E’ probabile che io debba osservare gli ordini del vostro Stato, ancora per molti anni, ma questa è una di quelle rare, bellissime occasioni, in cui posso dire al mio occupante, al mio torturatore, al mio carceriere, al ladro della mia terra, a quello che mi esilia, al demolitore della mia casa, a quello che blocca il mio orizzonte.

No.

Cordialmente,

Samar Batrawi

PhD Candidate and GraduateTeaching Assistant

Department of War Studies

King’s College London

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