10/10/13

Perché Paestum porta con sé un’aria pesante e stantia che sa di borghesia.

Perché Paestum porta con sé un’aria pesante e stantia che sa di borghesia.

La borghesia vuole che le donne siano e si considerino soggetti individuali, nel male e nel “bene”, ciò che teme e contrasta è quando le donne si considerano soggetto collettivo, perchè lì è che ci sono le avvisaglie della lotta; la borghesia accetta anche che le donne singolarmente esprimano un proprio “libero” pensiero, ciò che teme e cerca in tutti i modi di impedire è quando le donne  organizzate esprimono una precisa concezione, linea di scontro con questo sistema sociale e che su questo uniscono le loro forze per combattere il sistema, per passare da “vittime” a “guerrigliere”; la borghesia accetta che le donne si riuniscano, prendano la parola “liberamente” su argomenti vari, ma ciò che non vuole assolutamente è che le donne dalle parole passino ai fatti; la borghesia accetta che le donne della sua classe o aspiranti tali occupino, sia pur per pochissimo tempo la “scena”, limitandosi tra l’altro a parlare, ma non gradisce quando a riunirsi sono donne proletarie, ragazze che vogliono cambiare il presente e risponde anche con i manganelli, i gas lacrimogeni della polizia, il carcere, quando queste donne, ragazze “pretendono” pure di lottare per cambiarlo.   

Bene, se leggiamo quello che è successo a Paestum da parte delle organizzatrici e delle, come vengono definite, “storiche” è proprio quello che vuole la borghesia.
Non ne avremmo parlato, perchè ci sono cose ben più importanti che stanno riguardando le donne in questo periodo, lo facciamo perchè a Paestum, al di là delle “matrone” ci sono andate ancora tante ragazze, compagne, di nome e di fatto – anche se la metà dello scorso anno. E chiediamo loro di dire quello che gli è stato impedito di dire a Paestum e che pensano dopo Paestum.

Appena delle ragazze hanno cercato di parlare, dicendo con tutto il loro entusiasmo: «Non siamo ereditiere, siamo precarie», «Il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo». Un piano d’azione che sembra una iniezione di vitalità per la maggior parte delle presenti in sala che con scrosci di applausi gridano «brave! siete tutte noi!» (da la cronaca di L. Betti su Il Manifesto dell’8/10).
Subito sono state bacchettate: “Un entusiasmo che però non dura perché subito dopo un intervento ci tiene a precisare che quella non è la modalità, che non si tratta di spettacolarizzare l’incontro e che qui si parla a partire da sé” (idem).
Come vi permettete – strillano “le matrone” – di esprimere questa voglia di cambiare, col rischio di trasformare un tranquillo incontro, che deve rimanere tranquillo, in volontà di azione collettiva!? Ma soprattutto come vi permettete di parlare non a titolo individuale (che non può impressionare più di tanto) ma a titolo collettivo, a nome anche di altre che si riconoscono nell’intervento!?“Qui si parla  a partire da sè”.
Guai, quindi, a considerarsi soggetto collettivo, sociale – “Ognuna per sè”, e “Dio (le rappresentanti “femministe” borghesi) per tutte”?

Certo, apparentemente, c’è la “libertà di parola”, ognuna si alza e, a titolo strettamente individuale -   mi raccomando (!) – dice quello che vuole. Lo dice anche il titolo di Paestum 2013: “libera ergo sum”, salvo poi stoppare chiunque osi proporre anche una mozione innocua contro le norme sul femminicidio o chi disturba la “tranquilla riunione” ricordando la strage di Lampedusa.
D’altra parte questo titolo “libera ergo sum”, da un lato sembra della serie “fare lo spirito ad un funerale”, in una situazione in cui la libertà delle donne viene schiacciata, con 100 donne assassinate solo quest’anno, con centinaia di altre stuprate, con migliaia di donne licenziate costrette a tornare a casa, o con salari e contratti miserabili e offensivi, con donne a cui viene negata la libertà di vivere in salute e la libertà di lottare contro un futuro di morte – come alle donne in prima fila nel No Tav e No Muos, e potremmo continuare…; dall’altro è un concetto che, a maggior ragione per le donne che hanno doppie catene, che hanno catene sia materiali che ideologiche da spezzare, è profondamente borghese: di quale “libertà” si parla? Chi è libera, oggi? Tutte le donne che non sono libere allora “non sono”?
“Senza rivoluzione non c’è liberazione delle donne – senza liberazione delle donne non c’è rivoluzione” è un vecchio ma quanto mai attuale slogan del movimento delle donne. Parlare di libertà senza parlare e lavorare per la rivoluzione, parlare di “libertà” individuale, non è altro che parlare della “libertà borghese”, una misera “libertà” che al massimo è concessa a pochissime donne – che poi a volte la usano contro la maggioranza delle donne.
E questo è avvenuto a Paestum. Si è parlato di “libertà” ma poi è la libertà delle “matrone” che si è imposta sulle altre, della serie il fumo per molte, l’arrosto per poche (ma questo ha un retrogusto amaro che sa di nero).
Chi parla di “libertà” usa poi i metodi della imposizione, della intimidazione:
…un’avvocata di Bologna che si presenta come Teresa, mi intima con un tono perentorio, che questo non è il luogo, che qui non si parla del decreto (sul femminicidio – ndr) e che qui si parla di altro e in altro modo… la Teresa del giorno prima, prende le scale scende vicino il palco e mi strappa il microfono dalle mani…”(idem).

Le compagne del mfpr di Taranto conoscono l’andazzo dei cosiddetti “liberi e pensanti”.
Quei compagni, che mimetizzandosi dietro il termine generico di “cittadini e lavoratori” (quando in realtà si trattava e si tratta di realtà sociali, ambientaliste ed ex delegati, iscritti Fiom dell’Ilva) imponevano agli altri di non portare “bandiere”, di non osare di parlare come realtà organizzate o in rappresentanza di altri ma strettamente a titolo individuale, come appunto “cittadini” (meglio se potevi iniziare l’intervento parlando di un tuo famigliare o amico morto), mentre loro via via si costruivano le loro evidenti e identitarie “bandiere” e agivano come “gruppo compatto”.
Conosciamo bene questa idea che ha come effetto dire agli altri (non a sé): niente organizzazione e nello specifico: niente sindacato di classe degli operai Ilva, ognuno deve vedersela da sé. Un messaggio non troppo dissimile a quello che dice l’azienda: restate singoli, e quindi impotenti verso l’azione di padroni/sindacati confederali e governo.

Ciò che doveva essere assolutamente scongiurato a Paestum era “l’azione”, era “guardare oltre sé, come singola individua”, era “guardare il mondo”. Come diceva una compagna. “Dire che la pratica femminista è solo la presa di coscienza è un gesto ingeneroso… noi dobbiamo avere a che fare con quanto accade nel mondo…”. Ma queste semplici e di buon senso parole sembravano bestemmie a Paestum. Non viene fatto un documento finale, perchè? Altrimenti c’è il rischio che alcune vogliano passare dalle parole ai fatti – o metterci del loro in un impianto che deve essere quello prefissato (ma sempre, per carità!, apparentemente “libero”).
Si dice:“Nel femminismo non c’è una linea da seguire: la politica delle donne si sostanzia nella relazione viva tra loro… incontrarsi in presenza, parlarsi nel rispetto delle differenti strade politiche, la cui pluralità è un elemento di forza del movimento…” (dal commento di I.Durigon, L. Capuzzo, C. Melloni su Il Manifesto dell’8/10).
Ma se non c’è una linea comune da seguire, scusate, che si riuniscono a fare le donne? – per parlarsi? Ma non stiamo in un Bar…
“Rispetto delle differenze”? Ma, come abbiamo visto, basta che qualche “differenza” non sia gradita alle storiche e il rispetto va a carte 48. Poi va bene anche partire da “differenze” ma poi se rimangono tali vuol dire che ognuna continua anche dopo a dire e fare come singolo soggetto. E il “manovratore” ringrazia.
“Pluralità politiche” sono un elemento di forza? Ma di quale”politiche” stiamo parlando? Non vi nascondete, chiamatele con nome e cognome: RC, Sel, PD, o anche altro?

Unica cosa decisa a Paestum (e non a caso) è stata: “la costituzione di un Fondo di mutualità femminista dedicato alle donne che, per precise scelte di libertà e di pratica, si trovano in difficoltà economica e prive di sostegni…”. (dal commento di I.Durigon, L. Capuzzo, C. Melloni su Il Manifesto dell’8/10).
L’anima borghese delle “storiche” si fa eccome sentire. Non si decide nulla sulle battaglie femministe, ma sui soldi sì!
Poi, scusate, chi sarebbero queste “donne che, per precise scelte di libertà e di pratica, si trovano in difficoltà economica e prive di sostegni”? Se, il problema è la difficoltà economica, allora i soldi dovrebbero andare a milioni di donne… che non fanno affatto “scelte libere” per avere la vita che hanno; se invece si tratta di donne che hanno fatto “precise scelte di libertà e di pratica”, perchè mai i soldi dovrebbero andare a queste e non a un fondo per le lotte, per solidarietà con le donne arrestate per le lotte?
Ma si da che delle lotte a Paestum non si deve parlare…

Come si vede Paestum è e si è confermata una brutta cosa. Noi lo avevamo anche detto in tempi non sospetti ad alcune compagne.
Ora, stendiamo un velo pietoso. Ora diciamo anche alle donne, ragazze, compagne che sono state a Paestum e ne sono rimaste deluse, o arrabbiate che vogliono pensare e agire come soggetto collettivo di lotta per rovesciare dalla terra al cielo questo sistema sociale borghese: venite, c’è molto da fare, a partire da costruire lo SCIOPERO DELLE DONNE.

10.10.13

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